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ARTHUR MILLER, Focus

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Arthur Miller (1915 – 2005), una delle voci più anticonformiste e discusse della letteratura statunitense di metà Novecento. Nato a New York da una famiglia di ebrei benestanti, egli fu scrittore, giornalista, sceneggiatore di film e radio, ma è rimasto impresso nella memoria del grande pubblico soprattutto come commediografo: tra le sue opere principali, basti citare Erano tutti miei figli (1947), che quell’anno vinse il Tony Award come migliore opera, Morte di un commesso viaggiatore (1949), Il crogiuolo (1953), L’orologio americano (1980), Vetri rotti (1994). Miller dichiarò che le sue opere prendevano ispirazione dalle grandi tragedie greche, in particolare Sofocle, nell’intento di rappresentare sulla scena “il cuore e lo spirito dell’uomo medio”:

«I think the tragic feeling is evoked in us when we are in the presence of a character who is ready to lay down his life, if need be, to secure one thing-his sense of personal dignity […] From Orestes to Hamlet, Medea to Macbeth, the underlying struggle is that of the individual attempting to gain his “rightful” position in his society».

Chi è più avvezzo al gossip che alla letteratura di certo saprà che Miller fu anche l’ultimo dei tre mariti di Marilyn Monroe. I due furono sposati dal 1956 al 1961, anno precedente alla morte dell’attrice: Miller parlò di lei e del loro tormentato rapporto nell’autobiografia Timebends: a life (1987), definendo quel periodo come «il punto più basso della mia carriera». Il dramma La caduta (1964), incentrato sul burrascoso ménage tra un intellettuale e un’attrice, destò scalpore proprio per gli evidenti risvolti autobiografici. Alcune recenti rivelazioni hanno gettato un’ulteriore ombra sulla figura dell’autore, in particolare riguardo alla vicenda del figlio Daniel, nato nel novembre 1966 dal suo terzo matrimonio con la fotografa Inge Morath e affetto dalla sindrome di down: fin da subito Miller si rifiutò di assisterlo, collocandolo in un istituto e dimenticandosi quasi di lui, salvo poi abbozzare un riavvicinamento negli ultimi suoi anni di vita. Tralasciando facili giudizi sulla figura di Miller come uomo e padre, egli resta a tutti gli effetti uno dei maggiori drammaturghi del Novecento americano.

Arthur Miller scruta da dietro una maschera disegnata da Saul Steinberg, 1962. © Inge Morath / Magnum Photos

Guardando al Miller scrittore, il suo primo romanzo, Focus, fu una delle prime opere letterarie ad affrontare il tema dell’antisemitismo e, più in generale, delle varie forme di discriminazione che caratterizzavano – e in buona parte caratterizzano ancora oggi – la società americana del dopoguerra. Scritto e pubblicato nel 1945, il romanzo riscosse un discreto successo e fece conoscere il genio di Miller al grande pubblico americano. In una recensione apparsa sul New York Times del 24 novembre 1945, il giornalista Charles Poore azzarda addirittura un paragone tra Miller e Pirandello:

«Pirandello might have devised the plot on which Arthur Miller has based “Focus,” an unusual novel of a man’s inhumanity to man. It is the story of a Christian Caspar Milquetoast who suddenly looks Jewish when he begins to wear glasses, and thus encounters the full force of a malevolent bigotry he had been able to regard with considerable objectivity before».

Il protagonista di Focus, Lawrence Newman, è un uomo di mezza età, scapolo, che lavora come capo del personale per una grande azienda e vive insieme alla madre, anziana e semiparalizzata, in una villetta a schiera nel Queens, a New York. Newman è un uomo mite, abituato alla sua routine e a non intromettersi nelle vicende altrui. Ogni mattina prende la metropolitana per recarsi al lavoro, nella sede centrale di Manhattan, ed è proprio durante uno di questi viaggi che si accorge di un uomo, seduto di fronte a lui, che a tutti gli effetti gli dà l’impressione di essere ebreo. Quell’uomo “sembra ebreo”, ha l’aspetto e l’abbigliamento di un ebreo, anche se non saprebbe dire con esattezza quali dettagli lo portino a una simile conclusione. Egli ne è certo, e per questo sente di doverlo disprezzare.

La vita di Newman subisce un’improvvisa svolta quando, per correggere un difetto alla vista, egli è costretto a mettersi gli occhiali. Dopo essere stato dall’ottico e aver ritirato il nuovo paio, egli torna a casa, si rifugia in bagno, li indossa e fa una terribile scoperta: il suo volto, con quel nuovo elemento in vetro e metallo, appare diverso, ossia più “ebraico”. Gli occhiali mettono in evidenza la fronte ampia, il cranio piatto, il naso “a becco, terribilmente ricurvo”, insomma un volto tale e quale a quello di un ebreo. Anche la madre, vedendolo, conferma la sua prima impressione. (Questo episodio mi ha ricordato le prime scene del romanzo di Emmanuel Carrère I baffi (La moustache, 1986), dove però la trasformazione del volto del protagonista, che per sorprendere la moglie decide di tagliarsi i baffi, genera un effetto opposto: nessuno noterà il cambiamento, anzi, molti negheranno addirittura di averlo mai visto con dei baffi).

Il cambiamento è destabilizzante: da quel giorno in avanti, Newman sente che ogni persona che incontra, in centro e nel quartiere, anche quelli che già lo conoscevano, perfino i colleghi e gli amici, pensa che lui sia ebreo. E il suo atteggiamento colpevole, quasi mortificato, non fa che alimentare i dubbi di chi ha fatto dell’antisemitismo una battaglia personale. Il licenziamento, gli insulti in metropolitana, gli atti vandalici ai bidoni dell’immondizia appaiono quindi normali conseguenze di una “verità” che è sotto gli occhi di tutti: egli è ebreo, o almeno così appare, e in quanto tale va emarginato.

Arthur Miller ritratto dalla terza moglie Inge Morath nello studio della loro casa a Roxbury, Connecticut, 1961. © Inge Morath / Magnum Photos

Verso la fine degli anni Trenta, a New York, esisteva infatti un comitato, il “Christian Front”, deputato alla “pulizia“ della città dagli ebrei, considerati alla stregua di invasori, colpevoli di rubare il lavoro agli onesti cittadini newyorkesi e insudiciare i quartieri con la loro presenza. I membri del comitato perseguivano gli ebrei, oltre che per motivi religiosi, anche perché convinti della loro “cattiva natura”, che consisteva, a detta loro, in una sensuale compiacenza verso le donne, nella tendenza all’inganno e in una volgare quanto fastidiosa avarizia. Non volevano altro che “cacciarli via come cani”, compiacendosi della loro lotta che consideravano giusta e indiscutibilmente cattolica. L’organizzazione tenne piede per due lunghi anni, dal 1938 al 1940, sulla scia di quello che Hitler e i suoi stavano già compiendo in Europa, per poi essere di fatto smantellata grazie all’intervento del governo.

L’ostilità nei confronti degli ebrei, le persecuzioni indegne e le becere convinzioni che le fomentavano, appartengono a un’epoca che appare lontanissima e che (forse) non ha più nulla a che fare con il mondo moderno. Dunque, perché parlare di antisemitismo nel ventunesimo secolo? Quale interesse può avere un romanzo-denuncia del 1945, se l’oggetto delle accuse sembra essere venuto meno?

Un primo appunto è d’obbligo: l’odio nei confronti degli ebrei non si è spento del tutto. L’antigiudaismo è un fenomeno ancora esistente in molte parti del mondo – compresa l’Italia e gli altri Paesi occidentali – e si estrinseca in atteggiamenti discriminatori diretti alle persone ebree (offese, insulti, aggressioni di media o grave entità) e alle loro istituzioni (attentati alle sinagoghe e in generale ai luoghi di ritrovo). Parlare di questi temi, quindi, non è mai superfluo o anacronistico, specie se si considera che le stesse dinamiche si instaurano nei confronti di altre etnie o gruppi sociali – restando in Italia, e seguendo la cronaca più recente: i rom, gli immigrati, i fedeli di altre religioni non cattoliche, i membri della comunità LGBT+ e in generale chiunque sia o appaia “altro, diverso”.

Il romanzo di Miller, poi, ha un pregio che altre opere non hanno: quello di operare un ribaltamento dei ruoli, facendo ricadere le oscenità dell’antisemitismo su di un personaggio che, pur nella sua mitezza, contribuiva ad alimentarlo, o meglio non faceva nulla per combatterlo. Per far capire a qualcuno la gravità di certi atti discriminatori, o peggio ancora di una complicità omertosa e assecondante, la soluzione più efficace è farlo passare da carnefice a vittima, come accade a Newman quando, per un banale cambiamento del volto, vive la discriminazione sulla sua pelle. A distanza di quasi ottant’anni, Miller ci insegna che vestire i panni degli emarginati è, per alcuni, l’unico modo di uscire da uno stato di profonda ignoranza e risentimento, per conseguire una necessaria quanto salvifica evoluzione della propria mentalità.


Arthur Miller, Focus, traduzione di Bruno Tasso, Sugar Editore, 252 p.

Dal romanzo di Arthur Miller è stato tratto un film nel 2001 diretto da Neal Slavin, con William H. Macy nel ruolo del protagonista – attore già visto in pellicole di successo, quali Fargo (1996) e Air Force One (1997), e nella serie tv Shameless (2011–2021).

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