
Il Giappone esercita su noi occidentali un fascino che, a tutti gli effetti, è irresistibile. Un paese con una storia millenaria, per lungo tempo impenetrabile, una terra così lontana e misteriosa da risvegliare l’interesse anche dei campanilisti più radicali. Il Sol Levante attrae, oggi più che mai, per il cibo – ormai esportato in qualsiasi regione del mondo –, per il connubio tra modernità e tradizione e, ovviamente, anche per l’industria culturale.
Le ultime generazioni di lettori si sono avvicinate alla letteratura giapponese attraverso i romanzi di autori contemporanei: il recente successo di libri come Finché il caffè è caldo di Toshikazu Kawaguchi o Klara e il sole di Kazuo Ishiguro ne sono un chiaro esempio. Io stesso, negli anni dell’adolescenza, ho divorato uno dopo l’altro le storie di Murakami Haruki e Banana Yoshimoto, immergendomi nelle atmosfere surreali e profondamente intimistiche di questi due grandi autori.
I veri appassionati, però, si riconoscono dalla predilezione per i grandi scrittori del passato, partendo da Murasaki Shikibu e il suo Genji Monogatari, un classico del periodo Heian, e passando per Yasunari Kawabata, Premio Nobel nel 1968, il poeta di haiku Matsuo Bashō e il leggendario Yukio Mishima, scrittore-simbolo del periodo Shōwa, che nel 1970 commise seppuku – il suicidio rituale dei samurai – in diretta televisiva, come gesto estremo di lotta e libertà. In questo meraviglioso pantheon nipponico, un posto d’onore lo merita sicuramente anche Natsume Sōseki.
Natsume Sōseki (1867 – 1916) è stato uno scrittore dell’epoca Meiji, un periodo cruciale nella storia del Giappone che, dopo secoli di chiusura, si stava preparando a confrontarsi con il mondo occidentale. Nel 1900, egli fu il “primo studente di letteratura inglese del Giappone”, nominato dal governo per approfondire lo studio di questa materia in Inghilterra, dove visse due anni. Oltre all’attività di romanziere e poeta – Sōseki è considerato come uno dei padri della letteratura giapponese moderna – per diversi anni egli tenne anche una cattedra di teoria e critica letteraria all’Università Imperiale di Tokyo. Il suo primo romanzo, Io sono un gatto, pubblicato nel 1905, resta ad oggi la sua opera più famosa.
In Italia, Sōseki rimase sconosciuto al pubblico di lettori per un tempo lunghissimo, oltre sessant’anni. La prima traduzione di un suo romanzo risale al 1981 (Editoriale Nuova), ed è proprio l’edizione di Anima che vedete in foto, e che qui voglio presentarvi.

Anima (Kokoro) è un romanzo che Sōseki scrisse nel 1914, nei suoi ultimi anni di vita, quando già era gravemente malato. In molti lo considerano un capolavoro, il suo romanzo più bello; sicuramente rappresenta un successo editoriale, perché è uno dei romanzi più venduti di tutti i tempi in Giappone – complessivamente, dal 1914 ad oggi, ne sono state vendute oltre 7 milioni di copie. L’edizione che si trova oggi in libreria è di Neri Pozza – che dai primi anni Duemila ha contribuito alla riscoperta di questo illustre autore, traducendo e pubblicando diverse sue opere, ora riunite nella collana Le Tavole d’Oro – ed è stata intitolata Il cuore delle cose, scegliendo di dare una sfumatura diversa al titolo originale.
Kokoro è, infatti, una parola giapponese di uso comune che racchiude in sé molteplici significati. Banalmente si potrebbe tradurre con “cuore”, inteso sia come organo fisico, che come sede dei sentimenti umani, ma c’è molto di più: kokoro è un termine che abbraccia, oltre al cuore, anche la mente, intesa come sede del pensiero e dell’intelletto, oltre che della volontà, del coraggio, della compassione e di altre manifestazioni psicologiche strettamente collegate alle emozioni. Ecco perché la traduzione in lingua italiana che più si avvicina al significato originario è “anima”, nel suo senso più profondo di “essenza”, di “vita”.
Il romanzo è ambientato sul finire dell’epoca Meiji – più precisamente nel 1912, anno della morte dell’Imperatore – ed è strutturato in tre parti, ognuna delle quali suddivisa in capitoli brevissimi, lunghi poco più di una pagina. La prima, intitolata “Il maestro e io”, si apre su una spiaggia nella località balneare di Kamakura, dove avviene l’incontro tra un giovane ragazzo universitario, di cui non verrà mai svelato il nome, e un uomo più anziano, che da subito, istintivamente, egli decide di chiamare “maestro” (sensei).
L’ho sempre chiamato maestro, e così farò anche qui. Scriverò di lui come del maestro, senza svelarne il vero nome, non tanto per reticenza o timore della pubblica opinione, ma perché mi è più naturale. Quando richiamo alla memoria la sua persona, sempre mi vien voglia di dire “maestro”, proprio come mi accade se prendo in mano la penna. Non me la sento di scrivere di lui in nessun altro modo.
I due, dopo aver nuotato e chiacchierato brevemente, si salutano, dandosi appuntamento a Tokyo, dove entrambi vivono. Al termine dell’estate, il ragazzo si reca a far visita al maestro, nella casa in cui abita con la moglie e una domestica. Durante i loro incontri, il ragazzo scopre che l’uomo vive quasi in isolamento, ricevendo pochissime visite e uscendo di casa solo una volta al mese, per visitare la tomba di un amico di nome K. Il maestro è dominato da un pessimismo totalizzante e da un’assoluta sfiducia nel genere umano, conseguenza di un passato drammatico di cui, però, non vuole parlare.
Nella seconda parte, intitolata “I miei genitori e io”, il ragazzo, terminati gli studi, torna a casa dalla sua famiglia per assistere il padre malato, ormai prossimo alla morte. L’atmosfera domestica e la gravità del momento lo inducono a una profonda riflessione sulle sue radici e sul futuro che lo aspetta. L’ultima parte, “Il maestro e il suo testamento morale”, è una lettera del maestro al suo giovane discepolo, in cui finalmente soddisfa il desiderio del ragazzo di conoscere la storia del suo passato, ripercorrendo gli episodi tragici che hanno forgiato il suo carattere e condizionato la sua vita, fino all’ultima, estrema decisione.
Il corpo e la mente dell’uomo si sviluppano – o si distruggono – mediante stimoli esterni. Se non si sta molto attenti, e se non si bada che l’intensità dello stimolo aumenti per gradi, si potrà scoprire troppo tardi che il corpo, o la mente, si è atrofizzato.
La scrittura di Sōseki è limpida e lineare, scivola con delicatezza sugli eventi, anche quando si trova ad affrontare temi complessi quali la morte e il malessere esistenziale. Egli sacrifica la trama in funzione dei sentimenti, sovvertendo in parte le regole del romanzo europeo. Sōseki si muove su un terreno difficile, esplorando lati dell’animo umano con cui nessuno vorrebbe confrontarsi, perché troppo oscuri: solleva quesiti assoluti, in cui il timore di non trovare risposte è più forte della consapevolezza di non averne.
Il ragazzo, a cui è affidata la narrazione nelle prime due parti, è la rappresentazione del Giappone moderno, ovvero del desiderio di rompere con le tradizioni senza riuscire, tuttavia, ad abbandonare i propri punti fermi: un distacco, per lui come per il paese, sarà inevitabile. Il maestro è il vero fulcro della storia: un uomo che vive la sua solitudine come una libera scelta, quando in realtà è l’unica via per sopravvivere al suo senso di colpa. Egli personifica i valori della cultura giapponese: la lealtà, l’onore, il silenzio; ma allo stesso tempo non riesce più a vivere in società, perché diffida delle persone, compreso se stesso. La sua misantropia trova nell’ascetismo una soluzione, come forma di difesa e di elevazione.
I personaggi secondari completano il quadro, rafforzando l’atmosfera cupa che domina tutto il romanzo: Shizu, la moglie del maestro, accetta con fedele rassegnazione la misantropia del marito, badando a “tenere i suoi sentimenti prudentemente nascosti nel fondo del cuore”; i genitori del ragazzo, preoccupati per il futuro del figlio e della famiglia, dimostrano al contempo un’eccessiva attenzione per le apparenze e i doveri verso i vicini (“la campagna è permalosa”).
Kokoro è un romanzo intenso, ombroso, ma che si fa leggere con semplicità e arriva dritto al cuore. A distanza di più di un secolo, la scrittura di Sōseki non ha perso il suo smalto, e dimostra che può insegnare ancora molto alle nuove generazioni. Nell’era dei social, in cui ormai ci stiamo abituando a costruire identità digitali che lentamente soffocano quelle reali, è bene riflettere sulle parole del maestro, di un’attualità sconcertante:
Se oggi si sta in ginocchio davanti a una persona, domani le si potranno mettere i piedi in testa.
Rifiuto l’ammirazione di oggi per evitare le ingiurie del futuro. Preferisco sopportare la solitudine adesso, piuttosto che trovarmi ancora più solo negli anni a venire.
La solitudine è il prezzo che noi dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione individuale.
Natsume Sōseki, Anima, traduzione di Nicoletta Spadavecchia, Editoriale Nuova, p. 226.
Sul finire del 2016, in occasione del suo 140° anniversario, l’Università Nishogakusha di Tokyo ha realizzato un robot con le fattezze di Natsume Sōseki: un vero e proprio android, in grado di parlare e declamare alcune opere tra le sue più celebri. Solo i giapponesi potevano avere un’idea del genere.
Vi lascio il video (creepy) qui sotto: