
ASPIDISTRA [mod. L., f. Gr., ἀσπίς shield + -istra, after tupistra.] A genus of convallariaceous plants of China and Japan; a plant of this genus, esp. of the species A. lurida, or A. lurida variegata, a variety with striped yellow leaves, very commonly used as dwelling-room plants.
The Oxford English Dictionary 1933
Prima di leggere questo romanzo non avevo idea di cosa fosse un’aspidistra. Eppure nella mia vita credo di averne viste tante, senza mai possederne alcuna: è il classico esempio di come un oggetto appaia così familiare e innocuo che uno, anche se lo vede, non ci fa caso.
L’aspidistra è una pianta da appartamento, la tipica pianta che si trova nei salotti delle nonne, negli ospedali o nelle sale d’aspetto. Il nome è duro, aguzzo, per nulla romantico, e deriva dal greco ἀσπίς che significa “scudo”, poiché la forma dello stigma – la parte superiore del pistillo – ricorda appunto quella di uno scudo. Le foglie sono lunghe e appuntite, sempreverdi; i fiori sono piccoli e di colore violaceo tendente al marrone, compaiono una volta all’anno e appassiscono in pochi giorni.
Di origine asiatica, fu introdotta in Inghilterra agli inizi del 1800 e divenne ben presto una delle piante ornamentali più diffuse tra le famiglie inglesi della lower middle-class: abituate a stipendi miseri e case anguste, esse non potevano di certo permettersi le elaborate e fragili piante da serra; per contro, l’aspidistra, anche se poco raffinata e un po’ triste, era molto resistente e generalmente economica. Possederne una serviva, dunque, a procurarsi quell’apparenza di rispettabilità e decoro borghese così tipico della società vittoriana – l’equivalente, oggi, di una bella automobile parcheggiata nel vialetto di casa. Con il suo romanzo, di fatto, Orwell ha regalato a questa insulsa pianta una fama eterna.
Keep the aspidistra flying – questo il titolo originale, impropriamente tradotto nella versione italiana con una sfumatura più sentimentale – è il quarto romanzo compiuto di George Orwell: scritto nei primi anni Trenta, fu pubblicato nel 1936 da Victor Gollancz Ltd, la casa editrice che qualche anno prima aveva già presentato il suo esordio letterario, Down and out in Paris and London (1933). Il motto “Continuate a sventolare – nel senso di sbandierare, ossia sfoggiare, ostentare – le aspidistre” sembra già una dichiarazione d’intenti e si riferisce dall’usanza di esporre queste piante in vaso alle finestre delle case, in modo che chiunque vi passasse davanti potesse ammirarle e sapere che lì abitava una famiglia rispettabile.
Si chiese chi fosse la gente che abitava in quelle case. Dovevano essere, per esempio, piccoli impiegati, commessi di negozio, viaggiatori di commercio, galoppini di assicuratori, tranvieri. Sapevano di essere soltanto marionette che ballavano solo quando il denaro tirava i fili? C’era da scommettere la testa che non lo sapevano. E quand’anche lo avessero saputo, non gliene sarebbe importato nulla. Erano troppo occupati a nascere, sposarsi, far figli, lavorare, morire. […]
Quei piccolo-borghesi là, dietro le loro tendine ricamate, coi loro figli, i loro mobili dozzinali e le loro aspidistre, essi vivevano secondo il codice del denaro, senza dubbio, e riuscivano ciò nonostante a conservare la loro dignità. Avevano le loro norme, i loro inviolabili punti d’onore. Si “mantenevano rispettabili”: facevano garrire le loro aspidistre, come bandiere.
Il protagonista del romanzo, Gordon Comstock, commesso di libreria e poeta irrisolto, odia le aspidistre. Le detesta, crede che siano il simbolo della decadenza della società inglese moderna, il trionfo del conformismo sull’individualismo: in quanto artista, si sente lontano da quel mondo così chiuso e per nulla autentico, che lascia così poco spazio alla libera espressione di sé. Rifugge soprattutto la “morale dei quattrini”, convinto che le spietate regole del capitalismo – fondate sul denaro e sulla spasmodica ricerca di un buon posto di lavoro, per mantenere decorosamente se stessi, oltre che moglie e figli – annichiliscano l’uomo e lo conducano a un’esistenza grigia, spegnendo anche la più piccola scintilla di unicità.
Ciò di cui si rese conto, e sempre più chiaramente col passare del tempo, fu che il culto del denaro è stato elevato a religione. Forse è la sola vera religione – la sola religione veramente sentita – che ci sia rimasta. Il denaro è ormai ciò che Dio era un tempo. Bene o male non hanno più significato se non nel senso di successo o fallimento. […]
Il decalogo è stato ridotto a due comandamenti. Uno per gli imprenditori – gli eletti, il clero monetario, per così dire –, “Guadagna quattrini”; l’altro per i salariati – gli schiavi e subordinati –, “Non perdere il posto”.
Egli si impone dunque di vivere con poco, facendo un lavoro mediocre e senza prospettive che gli permetta di guadagnare solo lo stretto indispensabile, senza alcuna pretesa di arricchirsi: tutto per lasciare spazio alla sua arte, la poesia, e potervisi dedicare con mente libera. Forte delle sue idee, Gordon rinuncia a un impiego redditizio nel campo pubblicitario – “tutto il commercio moderno è un imbroglio” – in favore di uno più innocuo e incolore; abita una malconcia camera ammobiliata, dove la padrona di casa gli impedisce ogni visita e lo sorveglia senza sosta; continua la sua relazione con Rosemary, anche se non può sposarla o viverci insieme, perché non ha i mezzi.
Il risultato è assai deludente: Comstock, “quasi trentenne, guadagnava la bellezza di due sterline la settimana con un lavoro assurdo e lottava, come solo scopo dimostrabile della sua vita, con un terribile libro che non andava mai avanti”. Ogni suo sforzo di portare avanti la scrittura sembra vano, troppo spesso si trova in ristrettezze e deve chiedere un prestito alla sorella Julia, anch’essa indigente. I suoi propositi si sgretolano uno dopo l’altro, in un finale in parte già preannunciato – che in ogni caso non svelo, per lasciare un minimo di suspense.
Il punto cruciale del romanzo, quello su cui Orwell ritorna più volte come un martello che batte sul chiodo, è il denaro. L’odio verso il denaro e tutto ciò che esso rappresenta spinge Comstock a delle scelte controproducenti e sempre esagerate; la sua lotta è un’illusione, lo scopo è irrealizzabile. “Fallito in società, fallito in arte, fallito in amore: tre aspetti dello stesso fallimento. E la mancanza di quattrini è alla base di tutto”. Il sacrificio degli ideali sembra l’unica soluzione rimasta. Ma è davvero così? Non ci si può opporre al giogo del denaro?
In Italia, il romanzo si trova facilmente in libreria edito da Mondadori, nella stessa prima versione del 1960 tradotta da Giorgio Monicelli – una pubblicazione così tardiva mi disorienta; forse fu dovuta al trambusto della Seconda guerra mondiale o all’incredibile successo degli altri romanzi più famosi dell’autore, che la casa editrice pubblicò molto prima. Recentemente Rizzoli ne ha proposto una nuova edizione intitolata In alto l’aspidistra, traduzione sicuramente più fedele al titolo originale.
Consigliato a chi ha già letto La fattoria degli animali e 1984, per scoprire un lato inedito di Orwell. Per chi invece ancora non conosce questo autore, suggerisco di aspettare: leggete prima gli altri due, il piacere sarà triplicato.
George Orwell, Fiorirà l’aspidistra, traduzione di Giorgio Monicelli, Mondadori, 320 p.
Mentre facevo ricerche per scrivere questo breve testo, mi sono imbattuto in un divertente articolo intitolato Why Victorian people loved posing next to aspidistra plants. Le foto sono incredibili, vi lascio il link qui sotto:
https://www.amusingplanet.com/2019/04/why-victorian-people-loved-posing-next.html