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WILLIAM FAULKNER, L’urlo e il furore

  • di

Life’s but a walking shadow, a poor player

That struts and frets his hour upon the stage

And then is heard no more: it is a tale

Told by an idiot, full of sound and fury,

Signifying nothing.

William Shakespeare – Macbeth, Atto V, Scena V

La vita: da sempre oggetto privilegiato della letteratura di ogni epoca, descritta nei suoi aspetti più duri, con i suoi spettri e le mille difficoltà, i conflitti e le seccature. La vita, dunque, che per Shakespeare era «solo un’ombra che cammina, […] il racconto di un idiota, pieno di grida e furore, che non significa nulla»come fece dire a Macbeth nel monologo finale dell’omonima tragedia. E proprio i versi del grande drammaturgo inglese ispirarono Faulkner per il titolo di uno dei suoi più celebri e complessi romanzi, The sound and the fury, che della vita riproduce l’antitesi, e che qui ho scelto di raccontarvi.

Sceneggiatore, commediografo e poeta, oltre che romanziere, William Faulkner – “la voce del profondo Sud”, originario di New Albany, nel Mississippi, Premio Nobel per la letteratura nel 1949 – è stato uno degli autori americani più rivoluzionari della sua epoca: insieme ad altri illustri colleghi, come James Joyce e Virginia Woolf, egli contribuì a distruggere e riedificare le fondamenta del romanzo novecentesco, introducendo un nuovo modo di concepire la struttura narrativa e il flusso spazio-temporale del racconto. Tra i suoi romanzi di maggior pregio e intensità, basti ricordare La paga del soldatoRequiem per una monacaMentre morivoLuce d’agosto e Santuario.

L’urlo e il furore è stato il primo romanzo di Faulkner che io abbia mai letto, ormai molti anni fa: una lettura a cui mi sono approcciato con timore, influenzato dalle recensioni non sempre esaltanti, ma che mi ha letteralmente rapito. Esso apparve per la prima volta in America nel 1929, anno della Grande depressione e di uscita di un altro libro cardine del Novecento americano: Addio alle armi di Hemingway. A differenza di quest’ultimo, che riscosse da subito un enorme successo, Faulkner ebbe maggiore difficoltà a farsi apprezzare dal grande pubblico: i suoi testi erano troppo elaborati, quasi criptici, e per questo la fama stentò ad arrivare.

In Italia, il romanzo di Faulkner ebbe un debutto tardivo – venne infatti pubblicato da Mondadori nel 1947 e incluso nella sua meravigliosa collana Medusa, con la copertina verde e oro. Il grande poeta Attilio Bertolucci lo definì «un poema sinfonico in quattro tempi», e non a caso: diversi passaggi del testo hanno proprio la magia e il ritmo di un componimento musicale:

Tu ed io soltanto fra l’esecrazione e l’orrore nel mezzo della fiamma limpida.

Il libro narra la storia di una famiglia del Sud, i Compson, un tempo ricchi proprietari terrieri, ora in declino a seguito della crisi causata dalla guerra di Secessione, che negli Stati del Sud mise fine alla schiavitù e a ogni forma di sfruttamento; essi vivono nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha, nel Mississippi, dove è ambientata la maggior parte dei romanzi dell’autore, e che egli ricreò basandosi sulla reale contea di Lafayette, in cui visse per tutta la sua vita. A capo della famiglia stanno Jason Compson III, cinico avvocato alcolizzato, e la moglie Caroline, una donna ipocondriaca e totalmente anaffettiva nei confronti dei figli, che sono quattro: il più grande, Benjy, è affetto da un grave ritardo cognitivo che rende i suoi pensieri distorti e infantili, motivo per il quale la madre lo detesta; poi c’è Candace, l’unica femmina, chiamata affettuosamente “Caddy”, con uno spirito ribelle e anticonformista e per questo screditata dai familiari bigotti; infine altri due maschi: Quentin, di animo buono e brillante, segretamente innamorato – o forse solo geloso – della sorella, e Jason, il fratello cattivo, che alla morte del padre prende prepotentemente le redini della famiglia. A chiudere il quadro, la cuoca nera Dilsey, unica voce equilibrata del gruppo, e suo nipote Luster, che si prende amorevolmente cura di Benjy.

Il libro è suddiviso in quattro capitoli, ognuno dei quali dedicato a una giornata diversa e narrato dal punto di vista di uno dei componenti della famiglia; la parte più bella – e di più difficile comprensione – è quella che apre il romanzo e che è formata dal lunghissimo e sinuoso monologo di Benjy, dove le frasi si sovrappongono l’una all’altra, senza distinzione tra passato e presente, tra realtà e immaginazione: un vero capolavoro di contorsionismo narrativo.

Il babbo si avvicinò alla porta, volgendosi ancora a guardarci. Poi tornò il buio e si profilò, nero, contro la porta, poi anche la porta si fece nera di nuovo. Caddy mi teneva fra le braccia e potevo udire noi tutti, e udire il buio, e c’era qualcosa che potevo annusare. Poi potei scorgere le finestre, dove mormoravano gli alberi. Poi il buio prese a muoversi in forme silenziose e lucenti, come sempre, anche quando Caddy dice che stavo dormendo.

Superato lo scoglio del primo capitolo, la storia si fa più fluida e regolare, raggiungendo picchi di intensità poetica, racchiusa in brevi, semplici frasi: “Caddy odorava come le piante nella pioggia”“Aprì la porta nel crepuscolo. Aveva un viso come una torta di mele”“Caddy prese la scatola e la mise sul pavimento e l’aprì. Era piena di stelle”.

Un testo senza dubbio complesso, impegnativo, che richiede una buona dose di concentrazione e perseveranza. Un libro che induce al disorientamento e che può mettere in crisi anche i lettori più forti. Accettate la sfida?

Le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L’uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un’illusione dei filosofi e degli stolti.


William Faulkner, L’urlo e il furore, traduzione di Augusto Dauphiné, Mondadori, 329 p.

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