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TOP 5 MAROCCO

    Il Marocco è un Paese magico, ricco di storia e tradizioni millenarie.
    Una terra lontana, che brilla di uno splendore barbarico. Negli ultimi decenni assalita dal turismo di massa, da chi è in cerca di esotismo e souvenir, ma che sembra aver conservato “la magia dei secoli passati e il mistero dei giorni proibiti”.
    Qui vi propongo la mia personale selezione di libri dedicati al Marocco: cinque opere che raccontano i profumi, i suoni e i colori di questo mondo dorato, attraverso scenari da “Mille e una notte”. Tra mercanti e incantatori di serpenti, donne velate e cantastorie itineranti, troverete di certo l’ispirazione per un nuovo viaggio entusiasmante.

    1. ELIAS CANETTI, Le voci di Marrakech

    Il primo libro che voglio presentarvi è di un autore eccezionale, a lungo trascurato; un vero giramondo, che nel corso della sua vita soggiornò in molti luoghi diversi, riuscendo a infondere nei propri scritti la varietà linguistica e culturale con cui di volta in volta entrò in contatto: Elias Canetti – scrittore ebreo di origini bulgare, Premio Nobel per la letteratura nel 1981; tra le sue opere più rilevanti spiccano l’incantevole romanzo Auto da fé, il saggio sociologico Massa e potere e l’autobiografia La lingua salvata. Storia di una giovinezza, tutti pubblicati in Italia da Adelphi nel suo meraviglioso e colorato catalogo.

    Elias Canetti visitò il Marocco nel 1954 e vi si fermò per alcuni mesi, concedendosi una breve pausa dalla professione: egli era in cerca di nuovi stimoli creativi e pensò di ritrovare l’ispirazione perduta in quella terra misteriosa e vitale, che negli stessi anni fu il rifugio di altri illustri colleghi – Jean Genet, Gore Vidal e William Burroughs, per citarne alcuni. Invece di fermarsi a Tangeri – in auge in quel periodo perché più europea e viziosa – egli scelse di raggiungere Marrakech, città berbera dell’entroterra, situata ai margini dell’Alto Atlante e definita “città rossa” per le sue imponenti mura di arenaria. L’incontro con quel luogo fu per lui una vera folgorazione.

    Quando si viaggia si prende tutto come viene, lo sdegno rimane a casa. Si osserva, si ascolta, ci si entusiasma per le cose più atroci solo perché sono nuove. I buoni viaggiatori sono gente senza cuore.

    I quattordici racconti che compongono Le voci di Marrakech sono dunque il resoconto di quell’esperienza. Ognuno di essi è un piccolo quadro sulla vita della città: ci proiettano nel suo cuore pulsante, tra le finestre abbellite dei palazzi e gli stretti vicoli della Medina, facendoci captare tutti i rumori e i colori che la rendono così unica. Dal silenzio delle moschee al brusio della piazza Jemaa el-Fna, contemplata dall’alto della terrazza del Café de France – chiunque voglia visitare Marrakech non può non andarci, magari al tramonto, gustando una birra d’importazione e degli spiedini di agnello.

    Canetti descrive la magia dei luoghi di Marrakech, ma soprattutto si sofferma sulle persone che la abitano: i mendicanti ciechi, le donne nascoste dai veli, gli artigiani ebrei del quartiere della Mellah, gli incantatori di serpenti, i cantastorie e le loro incredibili esibizioni – “Le loro parole vengono da lontano e restano sospese nell’aria più a lungo di quelle dei comuni mortali”. Egli osserva con attenzione i loro sguardi e ammira l’enfasi dei loro gesti, riuscendo ad afferrare il senso dei loro discorsi pur non parlando la stessa lingua.

    Durante le settimane che ho trascorso in Marocco, non ho tentato di imparare né l’arabo né alcuna delle lingue berbere. Non volevo perdere nulla della forza di quelle strane grida. Volevo essere colpito da quei suoni per ciò che essi erano, e non volevo che nulla fosse attenuato da cognizioni inadeguate e artificiose.

    Questo breve libretto è dunque molto più di un semplice diario di viaggio. È la storia di un popolo, che svela la sua vera anima; un taccuino sentimentale che sicuramente saprà affascinarvi e invogliarvi a partire.


    Elias Canetti, Le voci di Marrakech, traduzione di Bruno Nacci, Adelphi, 126 p.

    2. TAHAR BEN JELLOUN, Creatura di sabbia

    Hadj Ahmed è un commerciante marocchino, padre di sette figlie e marito di una devota quanto sottomessa moglie. Egli vive con un pensiero fisso, che lo assilla giorno e notte: il disonore di non avere eredi maschi e la certezza che, alla sua morte, il patrimonio accumulato con tanta fatica verrà divorato dai suoi fratelli. Per questo, alla nascita dell’ottava figlia, egli decide di trovare da solo una soluzione al suo problema: fingere che quella bambina sia un maschio, chiamandola Mohamed Ahmed e facendola crescere come il suo legittimo erede, celando per sempre la sua reale natura.

    La storia di Hadj Ahmed lascia quindi il posto a quella del figlio Mohamed: è il racconto di una metamorfosi imposta, di un segreto inconfessabile; il sacrificio di una vita dedicata al mantenimento delle apparenze.

    Si tratta di una verità che non può essere detta, nemmeno suggerita, ma vissuta nella solitudine assoluta, circondata da un segreto naturale che si mantiene senza sforzo e che di essa costituisce la scorza e l’odore interiore […] una degenerazione fisica dove tuttavia il corpo conserva la sua immagine intatta, perché la sofferenza viene da una profondità che in nessun modo può essere rivelata.

    Tahar Ben Jelloun – scrittore e poeta marocchino, nato a Fès ma da cinquant’anni parigino d’adozione – è uno degli autori stranieri in lingua francese più conosciuti e acclamati in patria. Tra i suoi romanzi più belli, tutti ambientati in Marocco, vi segnalo Lo specchio delle faleneRacconti coraniciGiorno di silenzio a Tangeri e Le pareti della solitudine. La sua opera più celebre è, in realtà, un’altra: Il razzismo spiegato a mia figlia del 1998, un breve saggio sulla tolleranza tradotto in tutto il mondo e vincitore di numerosi premi, tra cui il Global Tolerance Award delle Nazioni Unite.

    L’enfant de sable, pubblicato in Francia nel 1985 e in Italia due anni più tardi da Einaudi, è un romanzo intimo ed emozionale, sospeso tra la realtà e le tenebre, in cui lo spirito poetico di Ben Jelloun si avverte in numerosi passaggi:

    “Certi silenzi sono come singhiozzi in una notte chiusa sulla notte”.

    L’assenza di riferimenti temporali e la scelta di affidare la narrazione a diversi cantastorie lo fanno assomigliare a una fiaba degna delle Mille e una notte. In realtà, la storia di Ahmed non è una favola per bambini, poiché, tra le righe, cela una profonda denuncia della condizione della donna nella società islamica: le donne che popolano i suoi libri sono soggiogate al potere degli uomini e limitate nella loro autonomia; non possono avere sogni o aspirazioni di sorta e il loro unico scopo è quello di essere affidate alle cure di un marito e di garantirgli la discendenza – se non lo fanno, o sono impossibilitate a farlo, vengono ripudiate. Esse riescono a guadagnarsi un po’ di libertà solo quando si trovano tra di loro, nell’intimità delle chiacchiere negli hammam.

    Siamo dunque di fronte a un romanzo complesso, ipnotico, che smuove le coscienze e non lascia indifferenti. Leggetelo per scoprire fin dove possono spingersi la disperazione di un padre e l’amore sincero, sacrificale, di un figlio.


    Tahar Ben Jelloun, Creatura di sabbia, traduzione di Egi Volterrani, Einaudi, 172 p.

    3. GEORGE ORWELL, Diari dal Marocco

    George Orwell — pseudonimo di Eric Arthur Blair, uno dei più acuti e brillanti scrittori inglesi del secolo scorso — soggiornò in Marocco per alcuni mesi, dal 7 settembre 1938 al 28 marzo 1939, alle soglie della Seconda guerra mondiale. Ci andò con la moglie Eileen, su suggerimento dei medici, in cerca di aria salubre per i suoi polmoni compromessi dalla tubercolosi: i due affittarono una casa nel deserto a cinque chilometri da Marrakech – Villa Simont, sulla strada per Casablanca – e lì vi passarono tutto l’inverno, occupandosi di piante e animali da cortile.

    Nell’arco di quei pochi mesi, Orwell tenne regolarmente un diario suddiviso in più taccuini, ove annotò tutte le sue impressioni su quella terra e sui suoi bizzarri abitanti, così diversi dai taciturni e beneducati inglesi. Il libro che qui vi propongo raccoglie le pagine scritte in quel periodo, più un breve saggio politico intitolato Marrakech, che l’autore scrisse e pubblicò dopo il suo rientro in patria.

    Orwell registrò nei suoi diari gli avvenimenti della quotidianità domestica, stilando minuziosamente tutti i dettagli delle sue giornate marocchine, dal prezzo dell’orzo alle varie tipologie di coltivazioni, fino al numero di uova prodotte dalle sue galline: “16 novembre 1938, Un uovo. 17 novembre 1938, Un uovo. 19 novembre 1938, Due uova. 21 novembre 1938, Due uova. 22 novembre 1938, Un uovo”Non mancano le descrizioni della natura e degli animali, sia domestici che selvatici: i cammelli, gli ibis e le cicogne, i muli da soma usati per arare i campi riarsi; e ancora le piante da frutto — noci, fichi, datteri, mandorli, limoni — e i meravigliosi fiori del suo giardino, che gli ricordavano quelli della sua cara Inghilterra.

    L’occhio attento dello scrittore non poteva non cogliere anche gli aspetti sociologici di questa esperienza: il Marocco di cent’anni fa era una terra ospitale e profondamente autentica, ma dominata dalla povertà e dall’accattonaggio. Un luogo dove “i nove decimi della popolazione vivono una massacrante lotta senza fine per cavar fuori un briciolo di cibo da questo suolo arido e ostile”.

    Quando si cammina in una città come questa — duecentomila abitanti, dei quali almeno ventimila non possiedono davvero nulla tranne gli stracci con cui si vestono — quando si vede come vive la gente qui, e ancor più spesso come muore, è difficile pensare di essere circondati da altri normali esseri umani. […] Spuntano fuori dalla terra, sudano e soffrono la fame per pochi anni, poi tornano sotto i cumuli del cimitero e nessuno si accorge che se ne sono andati. Le tombe stesse presto si confonderanno col suolo. A volte, in giro per una passeggiata, facendosi strada tra i fichi d’india, capita di accorgersi che il terreno sotto i piedi è sconnesso, e quando queste gobbe si fanno sempre più regolari, si ha la certezza di camminare sopra degli scheletri.

    Ciò che più mi ha sorpreso di questo breve testo è la sua disarmante semplicità. I pensieri di Orwell hanno un che di ripetitivo, rilassante, sicuro: sono genuini proprio perché l’autore non aveva alcun preciso intento letterario, li ha scritti per sé, per ricordarsi del suo viaggio. Sembrano quasi una litania, che ha il potere di incantare chi si appresta a leggerla.


    George Orwell, Diari dal Marocco, traduzione di Cristina Colla, Nuova Editrice Berti, 142 p.

    4. ALBERTO ARBASINO, Il principe costante

    Lungo splendide spiagge deserte, fra vaste onde atlantiche e ciuffi di palme da cartolina, scampoli concitati e confusi di battaglie di repertorio, addirittura incomprensibili: sono in campo un piccolo esercito bianco e un piccolo esercito moro, disordinatissimi tutt’e due.

    Due eserciti nemici posti uno di fronte all’altro, pronti all’attacco, circondati da un paesaggio da sogno. Questo lo scenario ricreato da Alberto Arbasino, viaggiatore assiduo e ingegnoso cantastorie, all’inizio del suo romanzo; anch’egli, come molti altri illustri colleghi, subì il misterioso fascino del Marocco, tanto da ambientarvi la storia surreale e coinvolgente racchiusa in questo breve libretto, che si ispira ad un fatto storico realmente accadutovi nel Tardo Medioevo.

    Il principe costante di Arbasino altri non è che Ferdinando d’Aviz, Principe del Portogallo e fratello del Re Edoardo I, che nel 1437 partì con i suoi prodi cavalieri alla conquista del Marocco, con l’intento di liberarlo dagli infedeli musulmani e annetterlo al suo glorioso regno. Una volta sbarcati a Tangeri, però, i fiacchi portoghesi subirono una dolorosa sconfitta da parte dei più forti e temibili mori: migliaia di soldati persero la vita, Don Fernando venne catturato e portato come prigioniero a Fès, dove morì qualche anno più tardi.

    La mente ingegnosa di Arbasino riuscì a realizzare l’impossibile, ossia trasformare questa vicenda profondamente drammatica in una commedia irriverente e spassosa: nel libro, infatti, la prigionia di Fernando si svolge nel sontuoso palazzo del Re di Fès, tra stanze fastose e giardini lussureggianti, ricevimenti di gala e battute di caccia alla tigre, in un’atmosfera da Grand Hotel dalla quale il nostro protagonista tenta in tutti i modi di non farsi travolgere.

    Questa versione del Principe costante è, in realtà, una riscrittura dell’opera omonima di Pedro Calderón de la Barca, uno dei massimi esponenti della drammaturgia spagnola del Seicento: lo scrittore di Voghera rimaneggiò il testo teatrale del grande Maestro allo scopo di farne la sceneggiatura per un film, ma il progetto non andò mai in porto. Il romanzo – pubblicato nel 1972 da Einaudi – è suddiviso in capitoli brevissimi, a volte lunghi appena una frase, che si susseguono l’uno dopo l’altro ad un ritmo quasi musicale: le parti narrate sono interrotte da dialoghi assurdi e versi di filastrocche, i giochi di parole si sprecano. Lo stile barocco di Arbasino è ai suoi massimi livelli.

    Quale sarà la degradazione estrema

    Il supremo tormento da affrontare

    Con la più squisita fermezza?

             Occorrono ripetute prove

    E numerosi necessari tests

    Come nel caso del raggiungimento

    Della saggezza?

             Ma poi, santità

    E sapienza coincidono,

    O non hanno dei fini eterogenei?

    Insomma, siamo di fronte a un capolavoro di genio e stravaganza, degno dei suoi migliori romanzi. Una piccola chicca per chi, come me, ama alla follia questo mirabolante, straordinario scrittore.

    Se vi siete persi gli altri libri di Arbasino da me recensiti, li trovate in queste due pagine:

    Le piccole vacanze

    Trans-Pacific Express


    Alberto Arbasino, Il principe costante, Einaudi, 136 p.

    5. EDITH WHARTON, In Marocco

    Per chiudere questa selezione di libri dedicati al Marocco ho scelto una voce femminile, autrice di storie romantiche e satire pungenti, nonché grande viaggiatrice – si narra che, nel corso della sua vita, girò mezzo mondo e attraversò più di sessanta volte l’Atlantico. Edith Wharton, scrittrice newyorkese trapiantata in Francia, oltre ai numerosi romanzi e alle raccolte di poesie, pubblicò svariatireportage di viaggio, in cui descrisse con sguardo critico le sue esperienze in terra straniera.

    La Wharton si recò in Marocco con l’amico Walter Berry nell’autunno del 1917, quando l’Europa era dilaniata dal primo conflitto mondiale: l’occasione fu una visita al generale Hubert Lyautey, résident général del protettorato del Marocco e Ministro della Guerra per il governo francese, il quale offrì la protezione dei suoi uomini per scortare lei e il compagno durante i vari trasferimenti. A quell’epoca, E.W. era già una scrittrice conosciuta e stimata, sebbene non avesse ancora raggiunto il suo massimo fulgore – il suo romanzo-capolavoro, L’età dell’innocenza, fu pubblicato tre anni più tardi, nel 1920: fu così acclamato dalla critica da farle vincere il prestigioso Premio Pulitzer, il primo nella storia dell’istituzione a essere assegnato a una donna.

    Il viaggio durò un mese e toccò tutte le principali città dell’ex impero: da Tangeri – “la cosmopolita, maleodorante, familiare Tangeri” – alla vivace e caotica Marrakech, con i suoi vicoli angusti e i mercati affollati; dalle rovine romane di Volubilis agli altissimi minareti di Rabat, “la città indigena […] ammonticchiata su uno scoglio rosso aranciato sferzato dall’Atlantico”; e poi ancora Fès, città-fortezza “sospesa sopra la distruzione”, e Meknès, definita “la Versailles del Marocco” per i suoi colossali palazzi e i magnifici giardini, costruiti per volere del sultano Moulay-Ismaël col sudore di cinquantacinquemila tra prigionieri e schiavi neri.

    Il Marocco raccontato da Edith Wharton non è molto diverso da quello che un turista può vedere oggi, gli elementi principali sono gli stessi: le strade nel deserto infuocate dal sole, i palazzi di argilla rossa e i preziosi mosaici delle moschee e degli harem, i richiami dei venditori ambulanti nei suk e le loro bancarelle con “frutta, olive, tonno, dolci vagamente sciropposi, candele per tombe di santoni, ghirlande di peperoni rossi e verdi alla Mantegna, dolci che friggono in teglie arroventate“.

    Dappertutto si sente la forza impetuosa o il sommesso mormorio dell’acqua, e da ogni muro viene il profumo delle rose e dei gelsomini […] qui tutto è pace e profumo. Un minareto spunta tra i tetti come una palma, e dal suo balcone la piccola figura vestita di bianco si sporge e fa cadere una benedizione su tutta la bellezza e tutto lo squallore.

    Oggi tutto sembra identico a un secolo fa, tranne per il fatto che il Marocco non è più una terra lontanissima e inaccessibile, ma si può comodamente raggiungere in poche ore con un normale volo di linea. Se la Wharton fosse vissuta nella nostra epoca, sono sicuro che i suoi viaggi sarebbero stati molto più frequenti e spericolati di quelli narrati nei suoi libri.


    Edith Wharton, In Marocco. Harem, moschee e cerimonie, traduzione di Anna Mioni, Franco Muzzio Editore, 189 p.

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