TOP 5 LIBRI DI VIAGGIO di autori italiani

La letteratura di viaggio è un genere affascinante e antichissimo: dal celebre “Milione” di Marco Polo fino ai giorni nostri, molti autori, nel corso dei secoli, l’hanno sperimentato e alcuni, addirittura, ne hanno fatto la propria cifra stilistica – basti pensare a Bruce Chatwin, Lawrence Osborne o al nostro compianto Tiziano Terzani.
Qui vi propongo cinque grandi autori della letteratura italiana — più un sesto come bonus track — che raccontano le loro esperienze di viaggio al di fuori dell’Italia, in paesi esotici e, alla loro epoca, ancora poco conosciuti.
Una piccola selezione di libri in cui i luoghi e le culture sono descritti attraverso la sensibilità di scrittori illustri, che hanno fatto la storia del Novecento italiano. Piccoli diari di viaggio che sapranno regalarvi emozioni uniche, facendovi sognare ad occhi aperti.

1. CARLO CASSOLA, Viaggio in Cina

Il primo libro che voglio presentarvi è una vera chicca: un piccolo gioiello che, sono sicuro, saprà affascinare tutti i fan del celebre scrittore. Viaggio in Cina è un volumetto di poche pagine, pubblicato nell’aprile 1956 da Feltrinelli come seconda uscita della serie “Scrittori d’oggi” dell’Universale Economica: un diario di viaggio che Carlo Cassola compilò appunto durante un suo soggiorno in Cina, all’epoca un paese sconosciuto, povero e politicamente molto discusso.

Si tratta, come ho detto, di una rarità, perché il libro è fuori commercio da molti anni e, soprattutto, perché è corredato dai meravigliosi disegni a colori del pittore milanese Ernesto Treccani che ritraggono diverse tipologie di personaggi cinesi dell’epoca — in copertina, ad esempio, troviamo il disegno di un operaio dell’infernale miniera di carbone di Fushun.

Cassola si recò in Cina nell’autunno del 1955, nel corso di una visita ufficiale alla Repubblica Popolare Cinese, insieme a una delegazione di altri eminenti intellettuali italiani, fra cui Norberto Bobbio, Piero Calamandrei e il poeta Franco Fortini, al quale il libro è dedicato. Il gruppo compì un viaggio di circa due mesi: essi attraversarono, in aereo e poi in treno, la Russia e la Mongolia e, una volta arrivati in Cina, vi si fermarono all’incirca un mese, spostandosi in treno per visitare Pechino, Shanghai, Hangzhou, Canton e Mukden — capitale della Manciuria, ora chiamata Shenyang, uno dei centri industriali più importanti della Cina nord-orientale —; prima di rientrare in Italia, essi fecero un’ultima tappa nella modernissima Hong Kong e poi in India, soggiornando per un paio di giorni a Bombay.

Per Cassola fu il primo viaggio al di fuori dell’Italia e la prima volta, a trentott’anni compiuti, che salì a bordo di un aeroplano: l’esperienza deve averlo impressionato non poco, come si evince dalle minuziose descrizioni delle hostess, delle sale d’aspetto e degli hotel per viandanti che incontra nel corso del viaggio. L’autore racconta una Cina travagliata e in forte evoluzione, reduce dalla dominazione giapponese e da ben due guerre civili: il nuovo governo socialista di Mao Tse-Tung e i piani di sviluppo economico del paese rivelano, agli occhi di un europeo illuminato, tutti i rischi e le criticità che, dieci anni dopo, sfoceranno nei massacri della Rivoluzione Culturale.

Al di là dei dibattuti aspetti politici, la Cina narrata da Cassola è un paese ospitale e profondamente attaccato alle sue tradizioni, con un “volto serio, sobrio e austero” che incanta per la sua maestosa dignità: gli antichi templi verniciati di rosso, i piccoli negozi che fungono anche da abitazione, la bellezza delle colline “immobili” e delle pitture che così fedelmente le raffigurano lo conquistano, lasciandolo senza fiato. E gli forniscono anche qualche spunto di rinnovamento per la sua cara, sventurata Italia.

Torno nel mio antico Paese dopo un viaggio tra popoli e civiltà tanto diverse. Non mi sembra di averlo mai amato tanto come ora; non mi sembra di esser mai stato tanto consapevole che ha bisogno di essere profondamente rinnovato.


Carlo Cassola, Viaggio in Cina, Feltrinelli, 115 p.

2. LALLA ROMANO, Diario di Grecia

Ogni campagna intravveduta all’alba dal buio e dal chiuso di un treno è un’apparizione di purezza: esangue, fredda. Ma l’alba nel Sud è calda, più che non sia nei nostri paesi l’aurora. Una dolcezza d’Oriente è in quell’aria, d’oro verde sono le foglie nuove della vite e del fico.

Lalla Romano è stata una delle scrittrici più autentiche e delicate di tutto il Novecento italiano, “leggera” e soave come le “parole” che la resero celebre nel 1969, quando il suo romanzo sul rapporto madre-figlio le fece meritatamente vincere il prestigioso Premio Strega.

Diario di Grecia precede di quasi dieci anni quel suo successo: è il resoconto di un viaggio, anzi, di una breve crociera che la Romano compì nella primavera del 1957 insieme al marito Innocenzo Monti — nel libro chiamato Stefano — e ad altri compagni di avventura. Pubblicato per la prima volta nel 1960 da una piccola casa editrice di Padova, il libro fu ristampato da Einaudi nel 1974 e, in una più recente edizione del 2003, in coppia col racconto Le lune di Hvar e altri scritti di viaggio elaborati nel corso degli anni.

La Romano e il marito partirono in treno dall’amata Milano e, attraversando di notte tutta la penisola, giunsero all’alba a Bari; qui si imbarcarono su una nave, l’Angelika, che, oltrepassando lo Ionio, li condusse alla prima tappa della loro vacanza, Corfù: un luogo che ricorda “dentro le ulivete / del solingo achilleo di Corfù”, i versi cantati da Pascoli nei suoi Canti di Castelvecchio, tanto cari all’autrice. Da lì, imboccarono un itinerario che toccò tutti i principali luoghi della Grecia classica: Itaca, Atene, Dafni, Eleusi, Delfi, Corinto, Micene, visitando rovine e ammirando paesaggi antichi, con la nave come unico elemento di modernità in mezzo a tanta storia e cultura.

Scivoliamo tra isole bianche e petrose, nel sole. Dànno un’impressione quasi cruda di nudità.

Forse consiste, l’essere isole, in quella leggerezza di uccello appena posato, e in quell’irremovibilità, insieme, di statue che si debbono aggirare.

Appaiono con nostro stupore; con nostro rimpianto dileguano.

La Romano poté così ammirare l’immensa piana di Corinto e la cima innevata del Parnaso; il sentiero sassoso dove “Edipo incontrò Laio e lo uccise”la “bellezza ossessionante” dell’Egeo, sulle cui “rive dorate, afferrato da simili schiume bianchissime, fu travolto Ippolito”; le maestose sette colonne del tempio di Apollo e le ombre del Partenone illuminato di notte. Questi luoghi ebbero l’effetto di rievocarle tutta la tragicità e il trionfo dei grandi poemi epici studiati in gioventù, lasciandole una sensazione di pace e di profonda riverenza.

Eugenio Montale definì questo libro come «un’opera discreta, qualcosa come una confessione privata. Nulla di turistico e di occasionale offusca il nitore del piccolo volume. È l’esperienza di chi, dopo avere sospettato che la Grecia fosse ormai “un libro”, scopre che la Grecia è invece un modo di vivere nell’eternità». E io, consigliandolo a voi, non posso che trovarmi d’accordo.


Lalla Romano, Diario di Grecia, Einaudi, 71 p.

3. MARIO SOLDATI, America primo amore

Il terzo libro che voglio suggerirvi ci porta direttamente oltreoceano, in quella che per molti giovani del secolo scorso, e forse anche dei nostri tempi, era la Terra delle grandi speranze: la rappresentazione di un desiderio tormentoso di riscatto economico, sociale e di libertà, che in patria non riuscivano ad ottenere.

America primo amore è una raccolta di articoli che Mario Soldati — scrittore, regista e sceneggiatore di multiforme talento — pubblicò sul quotidiano genovese “Il Lavoro” nei primi anni Trenta, relativi al periodo della sua giovinezza che egli trascorse negli Stati Uniti: “la storia di un lungo soggiorno e di un lungo amore: più precisamente, la storia di un tentativo di emigrare”.

Soldati si trasferì in America nel novembre 1929, proprio all’inizio della Grande Depressione, avendo ottenuto un posto come docente di storia dell’arte italiana alla Columbia University di New York — o “Neviorche”, come la chiamano gli emigranti italiani che, sporgendosi dai parapetti del Conte Biancamano, la vedono per la prima volta. All’epoca, e in realtà ancora oggi, la città sembra animata da un eterno fervore, è un vero crogiolo di culture e razze che sorprende e affascina il giovane ricercatore torinese:

Era l’epoca degli «hold-ups», del proibizionismo, degli «speakeasies». Miseria, disoccupazione, mendicanti per le vie. Il cinema sonoro appena inventato, Janet Gaynor la stella più in voga. Non si traversava l’Atlantico in aeroplano regolarmente come oggi.

Infine, io portavo ancora l’orologio nel taschino del gilet, con la catena passata all’occhiello, il Longines che mi era stato regalato dai miei genitori per la laurea.

Brooklyn, Harlem, Manhattan, Long Island: ogni luogo racconta una storia diversa e Soldati è pronto ad ascoltarla, con le orecchie ben tese e gli occhi spalancati. Egli decise di rimanere negli States anche una volta terminato il suo incarico, facendo i lavori più disparati e spostandosi a Denver, Washington e Chicago: quest’ultima gli apparve come “una metropoli disfatta, sudicia, triste, dove milioni di uomini vivono nella miseria e nell’abbruttimento. E, per questo, non v’è forse città che rappresenti meglio l’America”Il sogno americano di milioni di emigranti iniziava a rivelare le prime, profondissime crepe.

Non capisce, forse, non ama il proprio paese chi non l’ha abbandonato almeno una volta, e credendo fosse per sempre.

La prima edizione di questo libro fu pubblicata nel 1935 da Bemporad — storica casa editrice di Firenze attiva fino al secondo dopoguerra — e successivamente ampliata e ristampata da Einaudi, Garzanti e Mondadori, che di recente l’ha inclusa nei suoi Meridiani. L’edizione di Sellerio da me posseduta, invece, è dei primi anni Duemila e contiene, oltre a due saggi di Salvatore Silvano Nigro, un brevissimo e prezioso contributo di Carlo Levi, lo scrittore e pittore amico d’infanzia di Soldati, ove racconta l’incredibile storia della copertina che lui stesso disegnò per la prima edizione: versione confermata dall’autore — con alcune discrepanze temporali — nel saggio Storia di una copertina, anch’esso incluso nel libro.

L’America non è soltanto una parte del mondo. L’America è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America, ribellarsi all’Europa, e diventare americano.


Mario Soldati, America primo amore, Sellerio, 327 p.

4. ALBERTO MORAVIA, Passeggiate africane

«Fu la rivelazione della terra in cui avrei dovuto andare prima: invece ci sono andato molto tardi nella vita. Avevo ormai cinquant’anni. Avrei dovuto andarci venti, trent’anni prima. Non l’ho fatto, non so perché. Lo rimpiango. Per me l’Africa è la cosa più bella che esista al mondo».

A. Moravia – A. Elkann, Vita di Moravia.

Alberto Moravia era un viaggiatore curioso e instancabile, sempre pronto a scoprire nuovi luoghi e culture lontanissime da quella europea. Nel corso della sua lunga e mai monotona vita, egli si appassionò allo studio delle popolazioni indigene e compì viaggi ai quattro angoli del mondo, su iniziativa personale o come corrispondente d’eccezione per il Corriere della sera, scrivendo svariati libri e reportage dedicati proprio alle sue esplorazioni: Un mese in URSSUn’idea dell’IndiaA quale tribù appartieni?Lettere dal Sahara, solo per citarne alcuni.

Per questa Top 5 ho scelto di recensire Passeggiate africane, un libro che, senza dubbio, rivela di questo illustre autore tutta la sua indole di etnologo e il suo sconfinato amore per l’Africa, un continente che egli visitò a più riprese dal 1963 fino alla fine degli anni Ottanta e che, a poco a poco, gli entrò nel cuore. La prima edizione vintage Bompiani del 1987, inoltre, mi ha letteralmente ammaliato, dopo averla vista e agguantata dagli scaffali del Libraccio in una delle mie solite ricognizioni.

L’Africa raccontata da Moravia è un luogo selvaggio e in gran parte ancora inesplorato, dove i paesaggi e la natura incontaminata sono gli stessi che possiamo ritrovare nei documentari di National Geographic e nei romanzi di Karen Blixen; ma il suo sguardo è più istintivo che naturalistico, e sicuramente meno romantico di quello della scrittrice danese. Moravia è interessato alla gente, alla loro spiritualità e al modo che gli africani hanno di relazionarsi con l’ambiente che abitano; egli si astiene dal dare giudizi, limitandosi a osservare e fissare nella memoria la bellezza dei luoghi e delle persone.

Qualcuno ogni tanto in Europa mi domanda qual è il vero, segreto fascino dell’Africa. Rispondo che il fascino sta nel fatto che la natura vi è più forte dell’uomo mentre in Europa da molto tempo è più debole e che, come avviene coi potenti di qualsiasi genere, questa natura è imprevedibile e ci si aspetta sempre “che faccia qualche cosa” dalla siccità più incandescente alle grandi piogge torrenziali […]

Insomma gli eventi, in Europa, sono umani, troppo umani; in Africa sono, ancora oggi, il più delle volte naturali. Non ci si domanda sbadatamente: “Che farà oggi il governo?” bensì, con preoccupazione: “Come sarà il tempo?”.

Moravia percorre le vaste pianure africane in jeep, accompagnato dalla compagna di allora Dacia Maraini e da alcune guide locali, necessari intermediari per trovare alloggio, cibo e benzina. Il gruppo si muove tra Tanzania, Burundi, Ruanda, Zaire, Gabon e Zimbabwe, attraversando zone desertiche e grandi laghi, città plasmate sul modello occidentale e remoti paesaggi preistorici che “fanno immaginare minacciose deambulazioni di dinosauri, orrende zuffe tra giganteschi erbivori e carnivori antidiluviani”.

Arrivati alla fine del libro, non stupitevi se, anche voi, proverete un po’ di quel “mal d’Africa” che in molti dicono di aver vissuto dopo aver visitato questi luoghi: è l’effetto della prosa di Moravia. Consolatevi pensando che oggi, a distanza di più di trent’anni, l’Africa è sicuramente un luogo più accessibile e meno pericoloso da visitare — ad esclusione di alcuni suoi stati, ancora in subbuglio. Se l’attrazione è troppo forte, allora via! Organizzate il vostro viaggio e partite anche voi alla scoperta di questo meraviglioso, magico continente.

Tutti gli altri paesi del mondo hanno una storia; l’Africa, lei, ha invece un’anima che tiene il luogo della storia. Cosicché la storia dell’Africa, alla fine quando tutto è stato detto, è la storia della sua anima.


Alberto Moravia, Passeggiate africane, Bompiani, 154 p.

5. PIER PAOLO PASOLINI, L’odore dell’India

L’ultimo libro che vi propongo è anch’esso un diario di viaggio, scritto da uno degli autori, o per meglio dire degli Artisti, più innovativi e scandalosi del Novecento italiano. L’odore dell’India racconta l’esperienza del celebre poeta e regista emiliano in uno degli stati più popolosi e più poveri del pianeta, un paese con delle radici antichissime e un’arretratezza sociale quasi anacronistica rispetto al suo sviluppo economico e industriale.

Pasolini partì per l’India nel dicembre 1960, insieme all’amico e collega Alberto Moravia: i due dovevano recarsi a Mumbai per partecipare a un convegno organizzato in celebrazione del centenario della nascita di Rabindranath Tagore, uno dei massimi poeti e scrittori che l’India abbia mai conosciuto; Pasolini era corrispondente ufficiale per Il Giorno, Moravia per il Corriere della seraentrambi con l’incarico di scrivere una serie di articoli sulla loro esperienza in terra indiana. Moravia ne trasse anch’egli un libro, Un’idea dell’India, diversissimo nel contenuto e, soprattutto, nel modo di cogliere l’essenza di quel paese.

Il convegno fu l’occasione per compiere un viaggio più lungo, che durò all’incirca un mese e mezzo, in cui essi visitarono tutte le principali città del vasto territorio: Mumbai, Aurangâbâd, Ajanta, Ellora, Delhi, Agra, Gwalior, Orchha, Khajuraho, Varanasi, Calcutta. Per un breve tratto li accompagnò anche Elsa Morante, l’allora compagna di vita di Moravia, che restò con loro per alcuni giorni.

Un lungo viaggio nel cuore dell’India in una Dodge grossa e stabile come una corriera, Moravia e io soli: disponibili, allegri, curiosi come scimmie, con tutti gli strumenti dell’intelligenza pronti all’uso, voraci, goderecci e spietati”.

Seguendo l’itinerario riprodotto da Pasolini, l’India appare in tutto il suo fascino e la sua insanabile miseria: l’eleganza e la maestosità dei templi, in particolare di quello più famoso, il Taj Mahal, detto “la Porta dell’India”, si scontra con lo squallore delle “povere vacche dal mantello diventato di fango, magre in modo osceno, […] divorate dai digiuni, con l’occhio eternamente attratto da oggetti destinati a un’eterna delusione”; le antiche tradizioni, come le offerte agli Dei del mare — ovvero i cesti di frutta abbandonati alle acque limacciose del Gange –  fanno a pugni con lo spirito occidentalizzante dei più alti funzionari statali.

Ma quello che più colpisce la sensibilità dell’autore è il lato religioso e umanitario dell’India, nella lotta all’indigenza e nel sostegno ai più bisognosi: egli si reca, insieme ai compagni di viaggio, dal prete olandese Father Wilbert e visita la sua comunità per giovani orfani, restandone favorevolmente impressionato; incontra anche Madre Teresa, all’epoca già famosa in Europa per il suo sostegno ai lebbrosi, e resta colpito dal suo vigore e dalla sua “bontà vera, […] senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica”L’India è per Pasolini un luogo profondamente spirituale, in cui i vari credi convivono in armonia tra di loro e l’atmosfera è “favorevole alla religiosità”.

La vita, in India, ha i caratteri dell’insopportabilità: non si sa come si faccia a resistere mangiando un pugno di riso sporco, bevendo acqua immonda, sotto la minaccia continua del colera, del tifo, del vaiolo, addirittura della peste, dormendo per terra, o in abitazioni atroci.

Ogni risveglio al mattino dev’essere un incubo. Eppure gli indiani si alzano, col sole, rassegnati, e, rassegnati, cominciano a darsi da fare […]

Pasolini tornò in India qualche anno più tardi, per girare alcune scene del suo film Il Fiore delle Mille e una notteIl richiamo di questa terra era troppo forte e non vi seppe resistere. Io non ci sono mai stato e, lo confesso, non avevo in programma di andarci nell’immediato futuro; ma, dopo aver letto il suo libro, la curiosità per un paese così mistico e che “anche se non ha nulla, in realtà dà tutto” è davvero alle stelle.


Pier Paolo Pasolini, L’odore dell’India, Longanesi, 112 p.

Bonus track: ALBERTO ARBASINO, Trans-Pacific Express

Alberto Arbasino è un autore che amo particolarmente — ve ne ho già parlato l’estate scorsa nell’articolo dedicato alle sue Piccole Vacanze, se ve lo siete perso cliccate su questo link.

Come Moravia, anche Arbasino è stato un viaggiatore assiduo e nella sua produzione letteraria si possono trovare svariati saggi in cui racconta le esplorazioni e le esperienze fatte in terra straniera — tra gli altri: Parigi o caraLettere da LondraLe muse a Los Angeles e Pensieri selvaggi a Buenos Aires.

Il libro che più di tutti si avvicina a un vero diario di viaggio è Trans-Pacific Express, ovvero il racconto di “Dieci viaggi in dieci paesi d’Oriente — lungo i percorsi che voltano le spalle alla Storia per scappare nella Geografia”, come indicato in copertina.

Ho scovato questa meravigliosa edizione di Garzanti alla Libreria Baravaj di Milano in un soleggiato pomeriggio di aprile, quando già avevo iniziato a scrivere questo articolo e selezionato i libri da includere nella Top 5. Nonostante ciò, non me la sono sentita di scartarlo.

Ve lo lascio, dunque, come bonus track: un appassionante reportage che vi farà scoprire il Nepal, il Giappone, le Hawaii e tanti altri posti incredibili, accompagnati da un narratore mirabolante e unico nel suo genere. Vi stupirà, ne sono sicuro.


Alberto Arbasino, Trans-Pacific Express, Garzanti, 220 p.