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IAN MCEWAN, Bambini nel tempo

    Il libro che vi sto per presentare è stato oggetto per me di una vicenda particolare, che voglio raccontarvi. Lo vidi in autunno in una libreria dell’usato della mia città e fui immediatamente colpito — oltre che dal nome dell’autore, garanzia di buona letteratura — dall’immagine che vi è stampata sopra: un quadro semplicissimo di Lennart Anderson, Still life with kettle del 1977, raffigurante una natura morta in cucina su sfondo verde: lo ammetto, a volte rimango anch’io vittima della grafica di copertina. Lo comprai.

    Tornato a casa, lo abbandonai in una pila di libri non letti, perché pensavo — senza sbagliarmi del tutto— che fosse un romanzo un po’ cupo, nello stile tipico di McEwan, da destinare quindi a tempi più sereni. Bene, qualche settimana fa ho deciso di aprirlo, ho iniziato a sfogliare qualche pagina e l’ho terminato in pochi giorni. E ne ho ricevuto un insegnamento unico, folgorante nella sua semplicità: ho imparato che anche la cupezza più nera, il tormento più inconsolabile e la tragedia più grande possono alla fine tramutarsi in vera gioia.

    The Child in time — titolo originale in lingua inglese, che rievoca una celebre canzone dei Deep Purple del 1970 — realizza la paura più grande di ogni genitore: perdere il proprio figlio. E non per una morte improvvisa, un incidente o una malattia, ma per una scomparsa dovuta a una fatale distrazione. Lo sciagurato protagonista, Stephen, scrittore di libri per bambini, padre e marito amorevole, mentre si trova alla cassa di un supermercato perde di vista per un attimo sua figlia Kate, una splendida bambina di appena tre anni, e non la trova più. Rapimento o sparizione? Vani i tentativi della polizia, inutili le speranze di Stephen di ritrovarla: le uniche cose che gli rimangono sono un dolore immenso e un senso di colpa insuperabile.

    Il traffico rallentò a poco a poco, poi si fermò del tutto. Stephen attraversò insieme agli altri e cercò di lasciarsi invadere dall’insulto della normalità del mondo. Visualizzò la rigorosa semplicità dei fatti: era andato a far spese con sua figlia, l’aveva persa e ora stava tornando a casa senza di lei, per dire tutto a sua moglie.

    Cos’è successo a Kate? Questa è la domanda che riecheggia per tutto il romanzo e che tiene incollati fino all’ultima pagina. Ian McEwan — il celebre autore britannico di EspiazioneCortesie per gli ospitiChesil Beach e del più recente Lo scarafaggio, edito da Einaudi nella primavera del 2020 — si dimostra, ancora una volta, un maestro nel narrare le più dolorose tragedie domestiche, con un distacco e una lucidità sconcertanti. E se la vicenda dell’accusa di stupro innescata da Briony Tallis in Espiazione è forse la sua prova migliore, quella raccontata in Bambini nel tempo è sicuramente la più commovente.

    Leggendo questa storia, non si può non condividere l’angoscia di Stephen per la piega drammatica che ha preso la sua vita. Il suo rapporto con la moglie Julie si incrina; passa le giornate in poltrona a bere, trascura il lavoro, compra regali per il compleanno di un fantasma. Ma, più di tutto, è perseguitato dall’immagine della figlia: la vede ovunque, crede di riconoscerla prima in una senzatetto e poi in una bambina che gioca nel cortile di una scuola; resta aggrappato a un sottilissimo filo di speranza, una parte remota della sua mente continua a pensare che un giorno Kate farà ritorno a casa e che insieme, finalmente, torneranno a vivere giorni felici.

    Superata una certa età, gli uomini subivano un processo di congelamento, erano portati a credere che, anche nelle avversità, si sarebbero in qualche modo trovati a ricoprire il ruolo che il destino aveva loro assegnato. Perché loro erano quel che pensavano di essere. A dispetto di tutti i discorsi, gli uomini credevano in ciò che facevano e vi si aggrappavano. Il che era al tempo stesso una forza e una debolezza.

    Accanto a Stephen, immerso nel dolore per il suo lutto sospeso nell’incertezza, McEwan crea un universo popolato di personaggi vagamente stereotipati, descritti con pochi termini, ma precisi e taglienti: troviamo allora un primo ministro “rapito” dal suo incarico e bramoso della privacy che non ha più; una coppia di genitori anziani, indeboliti dalla malattia e dalla routine di una vita senza obiettivi a lungo termine; e poi c’è Thelma, astrofisica con “il classico chignon grigio da scienziata”, che discorre sulla fluidità del tempo in cerca di un ordine teorico superiore, e Charles Darke, suo marito, un politico di successo regredito all’adolescenza, vittima di una sindrome di Peter Pan irreversibile e fatalmente nociva. 

    McEwan è un attento osservatore dei vizi e delle distorsioni del mondo moderno; ci racconta la realtà, nuda e cruda, dalla maestosa ricchezza del bosco bagnato dalla pioggia al “fetore dolciastro di abiti sporchi e di alcool denaturato” degli accattoni in una stazione ferroviaria di Londra, riportando ogni dettaglio come parte di una scenografia complessa e bellissima. Non a caso, da questo romanzo — come da molti altri suoi libri — è stato tratto un bellissimo film per la TV prodotto dalla BBC e andato in onda in prima visione nel settembre 2017, con Benedict Cumberbatch nel ruolo di Stephen.

    Il finale è sorprendente, devastante, di una bellezza unica anche se non troppo verosimile. Non fate il mio stesso errore, comprate il libro e leggetelo, subito. L’insegnamento che ne trarrete varrà la lettura; a prescindere da ogni difficoltà, da ogni tragico, sconvolgente evento, la vita va sempre avanti, se solo si è disposti a viverla.


    Ian McEwan, Bambini nel tempo, traduzione di Susanna Basso, Einaudi, 225 p.

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