
Il mio cuore trabocca! Arkaša! Non sono all’altezza di tanta felicità! Me ne rendo conto, lo sento. Come mai proprio a me.
Dostoevskij non ha certo bisogno di presentazioni. Romanziere di spicco, abilissimo nell’indagare l’animo umano tra filosofia e letteratura, è stato uno dei pensatori più acuti della cultura russa degli ultimi secoli: «la sola persona che mi abbia insegnato un po’ di psicologia», come ebbe a dire Friedrich Nietzsche, lettore ammirato, riferendosi al suo incommensurabile genio.
Il libro di cui voglio parlarvi fa parte della sua produzione giovanile: si tratta di un racconto breve che fu pubblicato per la prima volta nel 1848 su Annali patrii (Otečestvennye Zapiski), celebre rivista letteraria di San Pietroburgo, quando Dostoevskij non aveva ancora compiuto trent’anni. Col passare del tempo, l’opera è stata – giustamente o ingiustamente – offuscata dalla fama dei suoi più lunghi e noti romanzi: basti citare L’idiota, Delitto e castigo, I fratelli Karamazov e I demoni, quattro capisaldi della letteratura internazionale moderna. L’edizione italiana in mio possesso è di Passigli, che per la copertina ha scelto un meraviglioso quadro di Valentin Serov, ritrattista russo suo contemporaneo.
Un cuore debole narra dell’amicizia tra Arkadij Ivanovič Nefedevič e Vasja Šumkòv, due giovani colleghi e coinquilini legati da un sincero rapporto di amore fraterno. Alla vigilia di Capodanno, in una San Pietroburgo innevata e gelida, Vasja confessa all’amico di essere in procinto di sposarsi: si è fidanzato con Lizan’ka Artem’ev, una giovane e delicata fanciulla di cui si è perdutamente innamorato. I due amici sono al colmo della gioia, sognano i festeggiamenti delle nozze e immaginano il roseo futuro che attende la coppia.
«Fratello, il mio cuore trabocca di dolcezza, ho l’anima così leggera…», disse Vasja alzandosi e cominciando a camminare nervosamente per la stanza. «Non è vero, dimmi, non è vero! Provi anche tu la stessa sensazione? Saremo sicuramente poveri, ma felici. Questa non è un’illusione; la nostra felicità non è stampata nei libri ma ci sarà nella realtà!…»
Passata l’euforia iniziale, Vasja viene però assalito da un’ansia incontrollabile: ha paura di ciò che lo attende, non si sente all’altezza di tanta fortuna e teme di non saper dimostrare tutta la gratitudine che prova: “si sentiva paralizzato, sconvolto dalla felicità. Credeva di non esserne degno”. Il disagio di Vasja è così grande da impedirgli di rispettare la scadenza di un lavoro e questo aggrava ancor di più la sua condizione. Arkadij tenta di salvarlo, di ricondurlo alla ragione, ma invano: il “debole cuore” dell’amico non resisterà ai tormenti interiori, l’inquietudine lo condurrà a un delirio psichico da cui disgraziatamente non saprà risollevarsi.
Il dramma immaginato da Dostoevskij si conclude nel peggiore dei modi, lasciandoci sbigottiti: come può un uomo soccombere alla sua stessa felicità? L’originalità del racconto sta proprio nell’assurda involuzione del protagonista, che poteva avere tutto e si ritrova invece ad autoeliminarsi, a perdere il senno per mancanza di autostima. La follia di Vasja ci appare insensata proprio perché è causata da un evento positivo, anziché da un fatto tragico: una triste conferma di quanto la natura umana possa essere oscura e imprevedibile.
Un cuore debole, nonostante la brevità e l’imperfezione tipica di un testo giovanile, è certamente una lettura interessante perché contiene in nuce alcuni temi che poi saranno ampiamente esposti nei grandi romanzi della maturità, in particolare riguardo ai conflitti interiori vissuti dai personaggi. La prosa è ancora acerba, ma già definita in alcune chiare scelte stilistiche: la centralità dell’azione e la scelta di descrivere i personaggi più dal lato psicologico che fisico resteranno un tratto distintivo dell’autore.
Vedi, ora sto tremando e non so perché. Ecco che cosa sto cercando di dirti, ho come la sensazione di non essermi capito fino ad ora, sì! Sì e solo da ieri ho imparato a conoscere gli altri. Io, fratello, non ero capace di sentire, non apprezzavo a fondo. Il mio cuore… era di pietra… Spiegami come è stato possibile che io non abbia mai fatto del bene a nessuno al mondo, perché ero incapace di farlo, ho in sovrappiù un aspetto sgradevole… mentre all’opposto ognuno mi ha fatto del bene! Tu per primo: credi che non me ne sia accorto? Ed io ho saputo soltanto tacere, soltanto tacere!
Insomma, un racconto cupo, claustrofobico, denso di pathos e tensione narrativa. Una nuova scoperta per chi già conosce Dostoevskij e lo ha amato; un ottimo punto di partenza per chi vuole avvicinarsi alla sua immensa produzione, ma ha paura di restarne sommerso.
Fëdor Dostoevskij, Un cuore debole, traduzione di Maria Assunta Cantobelli, Passigli, 78 p.