Vai al contenuto

GEORGES PEREC, Le cose

    La scrittura mi protegge. Vado avanti facendomi scudo delle mie parole, delle mie frasi, dei miei paragrafi abilmente concatenati, dei miei capitoli astutamente programmati. Non manco d’ingegnosità.

    Georges Perec – Je suis né

    Se non conoscete Perec, se non vi siete mai avvicinati al suo mirabolante e folle universo letterario, dovete assolutamente leggerlo. Scrittore innovativo e fuori dagli schemi, geniale nella sua assurdità e dallo stile inusuale, Perec fu certamente una delle voci più singolari della sua generazione.

    Orfano di entrambi i genitori fin dall’infanzia – il padre, arruolato nella Legione straniera, morì in guerra e la madre fu deportata e uccisa ad Auschwitz – Perec crebbe a Parigi con la famiglia degli zii, anch’essi di origine ebrea polacca; qui condusse studi in sociologia, mai terminati, e si dedicò alla ricerca scientifica e alla scrittura. Appassionato di cinema e di enigmistica, la sua produzione comprende romanzi, poesie, sceneggiature per il cinema e il teatro, scritti autobiografici e raccolte di parole crociate, veri capolavori di logica e d’ingegno.

    Insieme all’amico Italo Calvino fu uno degli esponenti di spicco dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), un gruppo di letteratura sperimentale fondato nel 1960 da Raymond Queneau, alla cui memoria Perec dedicò il suo libro di maggiore successo, La vita, istruzioni per l’uso. Il progetto era quello di creare nuove forme di scrittura obbedendo a precisi vincoli stilistici o matematici: alcuni esempi sono proprio La vita, istruzioni per l’uso – costruito seguendo lo schema a “L” con cui si muove il cavallo negli scacchi –, Esercizi di stile di Queneau – in cui l’autore descrive la stessa scena in 99 versioni diverse – e La scomparsa, un romanzo del 1969 che Perec scrisse interamente senza l’uso della vocale “e”.

    Georges Perec ritratto durante la presentazione del suo romanzo “Le cose”, per il quale ha da poco vinto il Premio Renaudot, Parigi, 1965 © Keystone-France/Getty Images

    Il libro di cui voglio parlarvi fa parte della prima produzione dell’autore ed è privo degli acrobatici giochi narrativi e linguistici delle sue opere più mature, ponendosi più sul piano di una fredda indagine sociologica. Les choses. Une histoire des années soixante è “una storia sulla povertà mescolata inestricabilmente all’immagine della ricchezza, come ebbe a dire Roland Barthes dopo aver letto la bozza del romanzo inviatagli dallo stesso Perec, che fu suo allievo alla Sorbona.

    Il libro fu la sua opera prima: messo a punto nell’arco di due anni, fu pubblicato in Francia da Julliard nel 1965 e nello stesso anno vinse il prestigioso Premio Renaudot, fratello del più famoso Goncourt. L’edizione italiana di Einaudi, la più recente in ordine di tempo, include una meravigliosa e accurata prefazione di Andrea Canobbio sullo stile e la genesi del romanzo.

    Le cose parla di una giovane coppia di intellettuali parigini, Jérôme e Sylvie, due caratteri oziosi e poco inclini al lavoro, due esistenze in divenire che rifiutano, con scarsa energia, l’idea di una vita mediocre e la sicurezza economica data dal posto fisso. Essi sono vittime più o meno inconsapevoli della moderna società dei consumi: il loro sogno più grande è di “possedere le cose, cose belle, raffinate, adatte a gusti sofisticati e gente di un certo livello; oggetti al di sopra delle loro possibilità, ma che certamente credono di poter apprezzare meglio di chi, quegli oggetti, se li può davvero permettere.

    “Il legno lucido, la seta pesante e ricca, il cristallo molato, il morbido cuoio” sono per loro il simbolo dell’ascesa; i viaggi a Londra, le spiagge alla moda, la cucina esotica, i cibi surgelati sono tentazioni a cui è davvero impossibile resistere. Essi bramano quel benessere materiale che permetterebbe loro di riscattarsi, di salire un po’ più in alto nella scala sociale: il desiderio è così forte da condizionare qualunque scelta, operando in loro una vera e propria metamorfosi involutiva.

    Ritenevano di signoreggiare sempre più i loro desideri: sapevano quel che volevano, avevano le idee chiare. Sapevano ciò che sarebbe stata la loro felicità, la loro libertà. Eppure s’ingannavano; stavano già precipitando verso la rovina. Cominciavano ormai a sentirsi trascinati lungo un cammino di cui non conoscevano né le svolte né la meta. A volte avevano paura. Ma, più spesso, erano solo impazienti: si sentivano pronti, erano disponibili: aspettavano di vivere, aspettavano il denaro.

    Jérôme e Sylvie, dunque, cercano di avere, di possedere, per essere. Per raggiungere questa condizione, tuttavia, non sono disposti al lavoro e alla fatica: l’ideale, per loro, sarebbe diventare ricchi per miracolo, grazie a un’eredità o a una vincita alla lotteria. Essi vedono il benessere come un dono, una fortuna; la loro esistenza è immobile e non sembrano conoscere alcuna idea di giustizia remunerativa.

    L’impazienza, si dissero Jérôme e Sylvie, è una virtù del ventesimo secolo. A vent’anni, quando ebbero visto, o creduto di vedere, quel che la vita poteva essere, la somma della felicità che celava, le infinite conquiste che permetteva, eccetera, seppero che non avrebbero avuto la forza di aspettare. Potevano, proprio come gli altri, arrivare; ma loro volevano soltanto essere già arrivati. Probabilmente appunto in ciò erano quel che si è soliti designare come «intellettuali».

    Lo sguardo adottato da Perec è tagliente, ma sempre super partes: egli solleva quesiti senza esprimere giudizi, racconta senza condannare; induce alla riflessione con freddezza e onestà intellettuale come se, di fronte a uno specchio, dovessimo giudicare noi stessi. Più si va avanti nella lettura e più si percepisce – e soprattutto si riesce a comprendere, a metabolizzare – il senso di vuoto e insoddisfazione che domina i due protagonisti; a conferma di ciò, la totale assenza di dialoghi in discorso diretto, indicativa del fatto che i due, al di là delle loro misere illusioni, non hanno nulla da dirsi, da condividere. 

    Una delle parti del libro che più mi ha affascinato è la descrizione dell’appartamento ideale sognato dai due ragazzi, posta in apertura del romanzo: Perec immagina un sontuoso e ampio quadrilocale nel cuore di Parigi, arredato in modo elegante e non scontato; elenca ogni singolo particolare, dalle librerie di ciliegio chiaro ai ninnoli posati su tavolini e ripiani, passando da una stanza all’altra in un climax di lusso e raffinatezza. E lo fa, non a caso, parlando al condizionale: l’unico tempo verbale in grado di rivelare la distanza tra il più forte desiderio dei protagonisti e la loro triste e cruda realtà.

    Il quadro descritto da Perec, dunque, non sembra tanto diverso da quello contemporaneo, e proprio qui l’autore dimostra la sua lungimiranza. Capitalismo e consumismo continuano a mietere vittime oggi come sessant’anni fa, servendosi degli stessi mezzi e generando le stesse disuguaglianze. Una società in cui la ricchezza è una virtù e l’individualismo una farsa, un mondo in cui ognuno di noi è unico e allo stesso tempo omologato.

    Ma davvero non è cambiato nulla, siamo ancora fermi agli anni Sessanta? Si può davvero raggiungere la felicità mediante il possesso? A voi l’ardua riflessione.


    Georges Perec, Le cose, traduzione di Leonella Prato Caruso, Einaudi, 122 p.

    Rispondi

    %d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: