
Nella breve prefazione al libro The way it came, una raccolta di quattro racconti scritti da Henry James sul finire dell’epoca vittoriana, Jorge Luis Borges diede di lui questa celebre definizione: «Henry James fu un insuperato maestro dell’ambiguità e dell’indecisione […] un disdegnoso gentiluomo dolente, che tenta invano di nascondere sotto eleganti attributi convenzionali ciò che denuncia il suo sguardo tristissimo: che è il più sventurato degli uomini».
Maestro indiscusso della narrativa inglese dell’Ottocento, abile indagatore dell’interiorità umana e pioniere del moderno romanzo psicologico, Henry James è, a buon diritto, uno degli scrittori più letti e amati di sempre.
Nato a New York da una ricca famiglia di intellettuali, egli trascorse la prima parte della sua vita negli Stati Uniti dedicandosi allo studio e all’attività letteraria, per poi trasferirsi definitivamente in Inghilterra a poco più di trent’anni. Uomo di mondo e amabile conversatore, condusse un’intensa vita di società, frequentando i circoli mondani e partecipando a sontuose cene nei salotti più esclusivi di Londra.
James fu uno dei primi scrittori della sua epoca a condurre una ricerca letteraria sperimentale, sviluppando il mondo interiore dei propri personaggi con uno stile elegante e mai banale, ricco di simbolismi e accurate descrizioni. La sua incrollabile dedizione al lavoro lo portò a produrre una mole immensa di racconti e romanzi di rara ricchezza e complessità – quali Ritratto di signora, Il giro di vite, La bestia nella giungla e Daisy Miller – oltre ad alcune opere teatrali e ai numerosi saggi di critica letteraria. Instancabile viaggiatore, James fu anche autore di meravigliosi testi di viaggio, in cui con grande sentimento descrisse i luoghi che più gli furono d’ispirazione.
Il libro di cui voglio parlarvi non è tra i suoi più conosciuti, ma certamente è da considerarsi un piccolo capolavoro di perfezione letteraria. Si tratta di un lungo racconto intitolato La lezione del maestro che James scrisse quando aveva poco più di quarant’anni: un’opera dedicata al mondo della letteratura e incentrata sul difficile rapporto tra vita e arte, ovvero su quanto i rapporti umani, i sentimenti e le passioni possano condizionare negativamente la produzione artistica di uno scrittore ‒ un tema complesso e sicuramente molto caro all’autore, che nel corso della sua vita restò celibe e non ebbe relazioni sentimentali di sorta.
Questa la trama: un giovane e promettente scrittore, Paul Overt, viene invitato dal generale Fancourt ad un ricevimento nella sua tenuta di campagna insieme a un folto gruppo di ospiti dell’élite londinese. Tra questi c’è anche Henry St. George, celebre romanziere e suo mito letterario, da lui definito “il Maestro” per l’indubbio talento e la profondità dei romanzi da lui creati: l’incontro è l’occasione che Overt aspettava per scoprire i segreti del suo idolo e trarne un prezioso insegnamento per la sua carriera.
I due intavolano un intricato discorso sul fine della letteratura e sulla natura dell’artista, in particolare riguardo alla rischiosità dei rapporti interpersonali: St. George, con un vigore e una serietà persuasivi, mette in guardia il giovane collega dai pericoli della vita matrimoniale, asserendo che l’amore e la mondanità possono condizionare negativamente la vocazione dello scrittore all’arte e alla perfezione. Overt prende sul serio la lezione che gli è stata impartita, rinuncia all’infatuazione per Marian, la graziosa figlia del generale, e parte per un viaggio alla ricerca di pace e ispirazione per il suo nuovo romanzo. Tornato a Londra, i due si incontrano di nuovo e qui il tanto venerato Maestro rivela, con un incredibile colpo di scena, tutta l’ipocrisia e la fatuità delle sue convinzioni.
La prosa raffinata di James e le atmosfere nobiliari in cui il lettore si ritrova immerso celano un messaggio controverso sotto molti punti di vista, sollevando un quesito morale di non facile soluzione: il mestiere dello scrittore è davvero simile a quello di un eremita? Vale la pena rinunciare alla propria felicità domestica in funzione di uno scopo più alto, dell’incessante ricerca di una perfezione intellettuale e artistica? St. George è inflessibile al riguardo: la vita affettiva rappresenta un intralcio per il vero artista, il quale deve respingere ogni appetito sentimentale, evitare la socialità e, soprattutto, non prendere moglie.
Non ci sono donne che comprendano davvero…che prendano parte al sacrificio?
Come possono prendervi parte? Sono esse stesse il sacrificio. Sono l’idolo, l’altare e la fiamma a un tempo solo.
Che l’arte sia una disciplina a cui votarsi con impegno e sacrificio è un assunto certamente condivisibile, ma che ciò debba comportare una tale privazione è difficile da accettare. Overt proverà sulla sua pelle quanto le asserzioni del Maestro siano sbagliate e fuori dalla realtà, comprendendo che, in fin dei conti, ogni artista è prima di tutto un uomo e, in quanto tale, fallibile. La vera lezione che James vuole impartirci è proprio questa: bisogna evitare di riporre la propria stima in uomini corrotti e ormai decaduti, perché a questo mondo non c’è nulla di più pericoloso dei falsi predicatori.
The lesson of the Master apparve per la prima volta sulla rivista Universal Review nell’estate del 1888 e fu poi revisionato e pubblicato in volume qualche anno dopo dalla casa editrice londinese MacMillan. In Italia il romanzo venne tradotto solo molti anni più tardi e di recente, in occasione del centesimo anniversario della morte dell’autore, Adelphi l’ha inserito nella sua Collezione Piccola Biblioteca con una nuova traduzione di Maurizio Ascari.
Un racconto illuminante, conciso e perfetto nella sua semplicità. Un ottimo spunto di riflessione regalatoci da uno dei più grandi Maestri della letteratura moderna.
Henry James, La lezione del maestro, traduzione di Piero Pignata, L’argonauta, 116 p.