
Nel suo breve saggio La difficoltà di essere, scritto tra il 1946 e il 1947 durante un periodo di convalescenza, Cocteau pone una sincera quanto lapidaria riflessione sull’amore e sul valore individuale dell’arte ‒ nello specifico la scrittura ‒ rispetto alle impressioni che essa può suscitare nell’osservatore:
Siamo tutti malati, e non sappiamo leggere altro che i libri che trattano della nostra malattia.
È il successo dei libri che trattano dell’amore, poiché ognuno crede di essere il solo a provarlo. Pensa: «Questo libro è indirizzato a me. Che posson capirne gli altri?». «Come è bello questo libro» dice la persona che amano, da cui si credono amati e a cui si affrettano a farlo leggere. Ma quella persona lo dice perché ama un altro.
L’amore, la morte e il fato sono tre temi cardine che governano l’opera di Jean Cocteau. Genio poliedrico e scandaloso, egli fu una delle personalità più moderne e originali del panorama culturale francese del ventesimo secolo.
Nato da una modesta famiglia in una cittadina alle porte di Parigi, Cocteau iniziò la sua carriera artistica pubblicando poesie e scrivendo soggetti per il teatro e il balletto, conquistandosi da subito l’attenzione della critica. Egli frequentò il circolo intellettuale di Montmartre e fu amico di Picasso, Modigliani, Stravinskij, Gide, Proust, Apollinaire e molti altri; fu membro dell’Académie française e continuò a esprimere la sua sensibilità poetica fino alla morte, avvenuta nell’ottobre del 1963, a poche ore da quella dell’amica Edith Piaf.
Poeta, romanziere, drammaturgo, pittore e regista cinematografico, Cocteau esplorò ogni forma artistica del suo tempo, riuscendo a distinguersi per lo stile innovativo e per la devastante potenza espressiva dei suoi lavori. In opere quali Oppio, Il Potomak e Il libro bianco egli riuscì a tradurre il suo tormento interiore in scritti dalla valenza universale; molti dei suoi testi teatrali, tra cui Orfeo, La voce umana e L’aquila a due teste, furono trasposti sul grande schermo, diventando capolavori di fama internazionale.
Les enfants terribles è il libro che più di tutti incarna lo spirito provocatorio e non convenzionale dell’autore. Scritto in soli diciassette giorni, mentre Cocteau si trovava in una clinica di Saint-Cloud per liberarsi dalla dipendenza dall’oppio ‒ droga a cui si avvicinò dopo la morte di Raymond Radiguet, suo giovane amante morto di tifo a soli vent’anni ‒ il romanzo venne pubblicato da Grasset nel 1929 e da subito scatenò le ire dei benpensanti, i quali mal digerirono lo scabroso tema dell’incesto e le pulsioni omoerotiche dei giovani protagonisti. L’edizione di Rizzoli da me posseduta è corredata di quindici illustrazioni originali disegnate dall’autore, essenziali e potenti, come il suo contenuto.

Illustrazione originale per Les Enfants Terribles creata da Jean Cocteau, Parigi, 1929.
Questa la trama: Paul e Elisabeth, due fratelli adolescenti rimasti orfani di padre, vivono in un povero appartamento con la madre, costretta a letto da una grave malattia, e sono indissolubilmente legati da un rapporto morboso e a tratti perverso. Dormono in due letti gemelli nella stessa stanza, che è teatro dei loro giochi: “un guscio in cui vivevano, si lavavano, si vestivano, come due membra di uno stesso corpo”. La loro fervida immaginazione li porta a viaggiare verso luoghi fantastici, il “gioco” li rapisce, inducendoli a cullarsi in una realtà schermata dai loro sogni.
Un giorno, durante una battaglia a palle di neve all’uscita dalla scuola, Paul viene colpito al petto da un sasso lanciatogli dal compagno Dargelos, un bullo dal fascino pericoloso per cui Paul prova un’ossessiva ammirazione: la ferita lo costringe a letto e Paul è assistito dalle cure della sorella. Quando la madre muore, i due fratelli si rinchiudono ancora di più in loro stessi, accettando di aprire le porte del loro rifugio solo agli amici Gérard e Agathe: essi vengono coinvolti nei loro diabolici ‘giochi’, in un intreccio di affetti e gelosie che li conduce in un vortice infernale, fino al tragico epilogo.
Cocteau ci parla di un lato dell’adolescenza che non è nuovo al mondo letterario, ossia l’intensità del legame tra giovani fratelli. In questo romanzo, il rapporto descritto è però ambiguo e parassitario, velatamente incestuoso anche se non raggiunge mai un piano fisico: Elisabeth, la più grande tra i due, domina Paul e ne è gelosa, difende con strenuo accanimento il loro legame e fa di tutto per impedire la relazione del fratello con Agathe, veicolandola con un diabolico stratagemma psicologico verso il mite Gérard.
Paul, dal canto suo, è chiaramente innamorato di Dargelos, prova un’attrazione quasi viscerale per questo ragazzo che è l’incarnazione di tutto ciò che lui vorrebbe essere, e che nella sua mente è diventato un mito ‒ nel personaggio di Dargelos, Cocteau rievoca un suo vecchio compagno del Lycée Condorcet, in un misto di ricordo e finzione ‒; Paul non riesce ad allontanarne il pensiero nemmeno quando quest’ultimo lo ferisce:
L’allievo pallido girò attorno al gruppo e si fece strada attraverso i proiettili.
Cercava Dargelos. Lo amava.
Questo amore era tanto più bruciante in quanto precedeva la conoscenza dell’amore. Era un malessere vago ed intenso, contro cui non esisteva alcun rimedio, un desiderio casto, senza sesso e senza scopo.
Gérard e Agathe, in tutto questo, assumono il ruolo di spettatori passivi ma indispensabili, poiché ogni spettacolo che si rispetti richiede un pubblico che vi assista. I quattro ragazzi si muovono quindi su un palcoscenico, che è la camera, in cui ognuno di essi ha il proprio ruolo e recita un copione scritto in gran parte da Elisabeth, vera burattinaia del gruppo, un “ragno notturno” come la definisce l’autore, che tesse i destini dei suoi compagni “stellando con la sua ragnatela tutti gli angoli della notte, pesante, leggera, infaticabile”.
La camera è dunque il centro del loro mondo, un universo chiuso e claustrofobico perennemente invaso da una miriade di cianfrusaglie, eppure così vuoto. I giovani eroi vi coltivano il feroce piacere della trasgressione, conducono il loro torbido gioco ribellandosi alla morale borghese che li vorrebbe invece convenzionali e realisti: delle forze esterne li dominano e li inducono ad agire, ed essi vi si abbandonano, in uno stato di sottomissione inconsapevole e priva di ogni senso di responsabilità.
Questi ragazzi terribili si rimpinzano di disordine, di una appiccicosa macedonia di sensazioni.
Il finale rende omaggio ‒ forse? ‒ a una delle più romantiche tragedie di Shakespeare, nella migliore tradizione teatrale. Lo lascio leggere a voi: fatevi incantare da questa moderna favola psicologica e scoprite quanto può essere dolce e potente la forza distruttiva di un legame.
Jean Cocteau, I ragazzi terribili, traduzione di Giovanni Fattorini, Biblioteca Universale Rizzoli, 157 p.