
Cinque romanzi d’autore, storie incantevoli che prendono vita negli angoli più belli di Milano, tra una passeggiata al parco Sempione e un caffè ai tavolini di un bar sui Navigli.
Letture nostalgiche per chi vive o ha vissuto in questa città, per chi vi si è trovato di passaggio e ne ha scoperto la magia e soprattutto per chi, come me, l’ha scelta e se ne è innamorato perdutamente.
1. LUIGI SANTUCCI, Orfeo in paradiso

Eroe di questo primo romanzo è Orfeo, un giovane in lutto per la recente morte della madre Eva. Preso dalla disperazione, Orfeo sale sul tetto del Duomo di Milano con l’intenzione di buttarsi di sotto e farla finita; un uomo misterioso lo salva, proponendogli un patto: farlo viaggiare indietro nel tempo, offrendogli il privilegio di vivere il ricordo della madre all’epoca in cui era fanciulla.
Il giovane si trova quindi catapultato nel diciannovesimo secolo e ne vive in prima persona gli avvenimenti storici: l’occupazione austriaca, i moti del 1898, la disfatta di Caporetto, il tutto osservando la madre crescere e diventare la donna a lui tanto cara.
Santucci rievoca in questo romanzo un periodo tormentato della storia di Milano, ricostruendone gli eventi attraverso lo sguardo placido di chi già sa come andranno a finire. Orfeo intraprende un viaggio metafisico, surreale, che lo sconvolgerà e lo metterà alla prova, dovendosi lui limitare al ruolo di spettatore passivo e quindi trattenersi dall’interferire con il corso della storia.
Ora Orfeo sapeva che la felicità era per l’uomo solo possibile in uno stato di passività. Era nell’essere stati “graziati” dal proprio tempo, sciolti dalle maglie puntigliose degli avvenimenti, delle responsabilità ed ambizioni che la vita come contemporanei ci serra addosso. Trovarsi fuori di tutto ciò ed esistere ancora: incantevolmente libero da quanto non serve, e ancora appassionatamente schiavo della sola cosa che sta a cuore.
La poesia e l’atmosfera emanate dalle pagine del libro rafforzano l’immagine onirica del volo di Orfeo. L’amore e un cieco egoismo lo spingono a inseguire il ricordo della madre, come in un sogno, perché egli è incapace di vivere il presente senza di lei. Vive una sofferenza lacerante, autoimposta, che gli impedisce di affrontare la perdita e la sua nuova condizione di orfano adulto.
Cos’è il paradiso, se non la proiezione egoistica di ciò che più amiamo? Ma il paradiso è altro dalla vita, dalla salvezza, dal sacrificio. La realtà non tarderà a rivelarglisi, scardinando le basi del suo dolore e cogliendone tutta la disperata assurdità.
Voglio dire ancora l’amore. Non c’è che quello, nient’altro, contro la guerra del tempo. È l’amore che si beffa del tempo, delle sue continue spogliazioni. L’amore vero è già previsione del distacco.
Luigi Santucci, Orfeo in paradiso, Arnoldo Mondadori Editore, 229 p.
2. CARLO CASTELLANETA, Gli incantesimi

Carlo Castellaneta è un autore che amo particolarmente. Milanese da parte di madre e creatore di storie uniche, è stato giornalista oltre che scrittore e ha dedicato alla sua città natale la quasi totalità delle opere in prosa ‒ per citarne alcune: Storia di Milano dalle origini ai giorni nostri, La mia Milano, Notti e nebbie, Navigli, Porta Romana bella etc.
Tra i vari romanzi che ho letto, ho scelto questo perché mi sembra il più avvincente, e perché parla d’amore.
Luigi, reporter e aspirante romanziere, è innamorato di Giovanna, giovane antiquaria con una doppia vita avvolta nel mistero. Una storia clandestina, in quanto entrambi sono già sposati, ma che una volta superati gli impedimenti coniugali non riesce comunque a trovare il meritato equilibrio.
L’amore travagliato dei due protagonisti si svolge nella Milano degli anni Sessanta, in un momento in cui la città era in pieno boom economico: lo sviluppo dell’industria, la costruzione di nuovi quartieri, i numerosi eventi mondani, tutto lasciava intendere che Milano fosse lanciata verso la modernità.
La relazione tra Luigi e Giovanna appare, per contrasto, quasi antica. I due sembrano innamorati nel senso più puro del termine: si vogliono profondamente, si rincorrono, sono gelosi senza motivo e non vorrebbero mai lasciarsi. Manifestano i propri sentimenti senza nascondersi e vivono così il loro amore, tra gli incontri furtivi in una camera a ore a San Siro e gli appuntamenti in un bar in Corso Matteotti.
La città che li accoglie è bizzarra, in trasformazione, e alterna un clima di nebbia ottundente a lunghe giornate estive di sole. Lo stile di Castellaneta è di un’eleganza d’altri tempi, autentico e riflessivo, perfino poetico nelle parti descrittive. I dialoghi sono spesso rapidi e taglienti, come si addice alle conversazioni segrete tra amanti.
Gli incantesimi è un romanzo tenero e nostalgico, che cattura i propri lettori in punta di piedi, lasciando un segno indelebile.
Leggendolo, chissà, magari anche a voi capiterà, come è successo a me, di pescare fra le pagine il nome della via in cui abitate, scoprendo che proprio lì, negli anni Sessanta, vi si trovava un appartamento poco raccomandabile in cui tre donne furono arrestate “per attentati contro la maternità, una delle quali la lavandaia Teresa Seveso d’anni venti sottoposta a pratiche illecite, dietro versamento di lire centocinquanta”.
Il dubbio che sia casa mia ancora non l’ho sciolto.
Carlo Castellaneta, Gli incantesimi, Rizzoli, 169 p.
3. GIOVANNI ARPINO, Randagio è l’eroe

La Milano che fa da sfondo a questo romanzo è una città feroce, inospitale, sospesa nel caldo torrido di un’estate degli anni Settanta. Le strade sono labirinti annebbiati dai fumi del catrame e dell’immondizia, la notte è carica di rumori agghiaccianti, esplosioni lontane e grida animalesche. Arpino sceglie uno scenario angosciante per raccontare una delle sue storie più surreali, un racconto colmo di verità e misticismo.
Giuan è un omone corpulento, sui quarant’anni, uno che oggi verrebbe definito un emarginato. Vive con la moglie Olona in un appartamento della periferia di Milano ed è un pittore di falsi d’autore; da sei anni dipinge solo l’Ultima Cena, di cui sembra essere ossessionato. Giuan è un folle sognatore alla ricerca di un miracolo che possa cambiare il mondo. Ogni notte, lui e la moglie prendono le loro biciclette e vanno in giro per la città, armati di vernici spray e solventi, per trasformare i graffiti scritti da giovani teppisti rivoluzionari in solenni messaggi d’amore.
L’eroe di questo libro è quindi, come si evince dal titolo, un cane randagio, o, nelle parole della moglie, “un leone che non sa ancora dove pianterà i denti”. Di fronte all’impietoso degrado della società, Giuan non si dà pace, vuole lasciare un segno nel mondo e dare il buon esempio a chi ha perduto la propria strada. Prova a realizzare il suo piano partendo dal basso, da chi è emarginato come lui, mescolandosi a clochards e giocatori d’azzardo. Insegna loro cos’è la bontà, si fa carico delle loro sofferenze e cerca di aiutarli al meglio delle proprie possibilità.
Arpino ci presenta la figura di un moderno messia, un uomo che da solo tenta di salvare l’umanità dal proprio declino, arrivando addirittura a sacrificare se stesso. La lezione che ci vuole impartire ha i caratteri di una profezia, il linguaggio è semplice e diretto e gli eventi accadono in una dimensione a metà tra il sogno e la cruda realtà.
Alla fine, il miracolo cercato da Giuan si compirà solo a metà, rovinato dall’ingordigia degli uomini, condannati alla loro desolazione. Il sogno andrà in frantumi; solo una frase si ripeterà, come un mantra:
Va’ dove va il tuo cuore.
Dovremmo tenerlo a mente, sempre.
Giovanni Arpino, Randagio è l’eroe, Rizzoli, 140 p.
4. ANNA MARIA ORTESE, Silenzio a Milano

Grandi e mostruosi idoli usciti dal cervello dell’uomo hanno riempito il cielo e coperto gli orizzonti d’erba. Si costruisce febbrilmente, si elevano cattedrali ai nuovi dèi: la produzione, il guadagno, una felicità apparente dominano: sotto tutto questo riposano la memoria e la bontà dell’uomo.
Questa è Milano vista dagli occhi di Anna Maria Ortese, una tra le più acute scrittrici e giornaliste italiane dello scorso secolo. Nel corso della sua vita, tra i vari spostamenti dovuti alla sua professione, si trovò a visitare più volte la città lombarda e proprio qui, verso la fine degli anni Cinquanta, scrisse alcuni reportage che vennero raccolti in volume con il titolo di Silenzio a Milano.
Le storie raccontate dalla Ortese parlano degli angoli più moderni e cupi di Milano, una città in bilico tra le architetture medievali e un paesaggio nuovo, avveniristico, degno del suo nuovo ruolo di metropoli, capitale economica d’Italia. Ammiriamo dunque lo splendore dei grandi alberghi, che si ergono come piramidi, e la malinconia dei locali notturni; la nobiltà dei parchi, la ricchezza dei palazzi del centro storico e lo squallore delle case popolari in periferia.
La Ortese ci porta fin dentro la Stazione Centrale, “una mostruosità di pietra, di ferro, di fumo”, uno scalo obbligato per tutti i pendolari che ogni giorno si riversano a Milano per lavoro e come un’onda la travolgono al loro passaggio. La stazione è un edificio buio e spettrale che, soprattutto di notte, assomiglia a un mausoleo e a una prigione:
Stazione in superficie, in profondità era il punto d’incontro tra un’Italia invecchiata, sorda, incivile, e un’epoca affamata di produzione, in ginocchio davanti alla produzione, a un numero sempre più vertiginoso di cose, di cifre. Si entrava in questa città per essere trasformati in cose, in cifre, o respinti.
I personaggi che incontriamo in questo tetro paesaggio sono a loro volta angoscianti, folli e fatalmente perduti: i ragazzi del riformatorio di Arese, disadattati involontari; la prostituta della stazione, condannata ad una veglia eterna; i due fratelli orfani, uniti da un dolore comune, che li avvicina e li annienta singolarmente. Ed è la città la vera responsabile, una città che “consiglia continuamente il silenzio, predica incessantemente il silenzio; dispone senza stancarsi la condizione prima del silenzio: la solitudine”.
Una lettura che vi consiglio con il cuore, non lasciatevela scappare. Perché la cosa più affascinante di Milano, se si è abbastanza fortunati da poterla vivere almeno una volta, è proprio questa: il suo silenzio.
Anna Maria Ortese, Silenzio a Milano, La Tartaruga, 140 p.
5. GIORGIO SCERBANENCO, Il terzo amore

Elena è una donna avvenente, forte e malinconica; ha un fascino magnetico che cattura gli uomini, anche se si innamora sempre di quelli sbagliati. Elena è madre di un bambino, Anni, avuto da un uomo che l’ha abbandonata; per lui Elena fa lavori miseri e faticosi, per lui è disposta a tutto, anche a scendere a compromessi con la sua integrità, per dare a suo figlio la serenità che lei non ha mai avuto.
Giorgio Scerbanenco (nome d’arte di Vladimir Scerbanenko, nato a Kiev da padre ucraino e madre italiana e cresciuto in Italia, tra Roma e Milano) è ancora oggi riconosciuto come uno dei più mirabili maestri del giallo all’italiana. Tra le sue opere di maggior successo, Milano calibro 9, Il Centodelitti e tutta la serie del medico-investigatore Duca Lamberti: Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro, I milanesi ammazzano al sabato.
Scerbanenco giunse a Milano da ragazzo insieme alla madre, negli anni Venti, e qui passò gran parte della sua vita; rimasto orfano molto giovane, per guadagnarsi da vivere fece di tutto, partendo dai mestieri più umili fino alla tanto agognata carriera di giornalista e scrittore.
Il terzo amore fu uno dei suoi primi romanzi ad essere pubblicati, nel 1938. All’epoca, egli lavorava come caporedattore dei periodici Mondadori e vi curava personalmente una rubrica del cuore. Il romanzo in questione appartiene anch’esso al genere della letteratura rosa, così lontano dalle avventure poliziesche e noir che tanto lo resero famoso, ma proprio per questo ancora più prezioso.
La Milano descritta da Scerbanenco è esattamente quella vissuta da lui nei suoi vent’anni: gli appartamenti di periferia, umili e rassicuranti; i teatri del varietà, le macchine di lusso e i circoli privati; i bar e i ristoranti di Corso Garibaldi, i viali del Parco Sempione, il viavai ininterrotto della Stazione Centrale.
Milano è una città operosa, in continuo fermento, crudele e allo stesso tempo benevola: il mito in cui molti giovani riponevano le loro speranze e i loro sogni. Elena vivrà i suoi drammi in quest’atmosfera energica e angosciante, con una forza di spirito che saprà sovrastare le molte persone che, in modi diversi, tradiranno la sua fiducia.
Sola, sola, in una vecchia, terribile città, dove sembra che si debba soltanto lavorare, dove forse non arriva mai il giorno della pace, della serenità. E gli uomini lavorano e le donne lavorano e il denaro sparisce per un nuovo lavoro, e così all’infinito. Milano.
Ottant’anni dopo, Il terzo amore viene riproposto da La Nave di Teseo in una nuova edizione, arricchita da una sentita prefazione scritta dalla figlia Cecilia. Lo consiglio a chi Milano l’ha vissuta in gioventù, vi potrà ritrovare tutta l’energia e l’incontestabile fascino che sopravvivono alle epoche.
Giorgio Scerbanenco, Il terzo amore, La Nave di Teseo, 2019, 270 p.