
Ci vuole anche un minimo di ottusità per plasmare una vita felice. Quelli che non l’hanno, la conquistino.
In un breve volume intitolato L’arte di essere felici ‒ un insieme di scritti rimasti a lungo inediti e pubblicati più di un secolo dopo la sua morte ‒ Arthur Schopenhauer sostiene che la felicità è un’utopia e che il segreto per essere felici è capire che la vita non è altro che sofferenza. “La felicità e i piaceri sono soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano direttamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa”.
Uno stato di felicità compiuta è dunque impossibile da raggiungere e stolto è chi aspira ad ottenerlo: il vero fine dell’uomo dev’essere quello di vivere il presente, rinunciando a ricercare una felicità illusoria e mirando piuttosto ad una più terrena condizione di quieta serenità. Ricordando Aristotele, “l’uomo saggio non persegue ciò che è piacevole, ma l’assenza di dolore”.
La definizione del concetto di felicità ‒ e soprattutto la spiegazione del modo, se mai c’è un modo, di ottenerla ‒ non fu un tema caro solo ai filosofi, ma una costante che è possibile ritrovare nella letteratura di ogni epoca. Alcuni autori ne parlarono in un’accezione positiva, come Tolstoj, secondo cui “non vi è che un modo per essere felici: vivere per gli altri”, o Cechov: “La felicità è una ricompensa che giunge a chi non l’ha cercata”. Altri ebbero una visione decisamente più pessimista: secondo Proust “la felicità non può attuarsi mai”, perché l’oggetto a cui tende è mutevole; per Leopardi “ogni felicità si trova falsa e vana, quando l’oggetto suo giunge ad essere conosciuto nella sua realtà e verità”; più drastico Kerouac: “mi dimetto dal tentativo di essere felice”.
Cos’è dunque la felicità? Ciò su cui tutti, più o meno, concordano, è che la felicità è qualcosa a cui ognuno di noi tende per natura, ma che sembra irraggiungibile. Un privilegio di pochi, un miraggio lontano e indefinito che confonde e dirige le nostre azioni. L’aspirazione alla felicità e la riflessione sul senso della vita e della morte sono i temi centrali del romanzo di cui voglio parlarvi.
La morte felice narra la storia di Patrice Mersault, un giovane impiegato di un ufficio portuale di Algeri che conduce una vita modesta e solitaria: abita nella stessa povera stanza dove viveva con la madre, deceduta ancora giovane per una malattia. Si intrattiene con Marthe, una ragazza sensuale e libertina per cui non prova amore, rincorrendo il sogno di una felicità che gli sembra lontana e irrealizzabile. Proprio Marthe, un giorno, predispone l’incontro con Zagreus, un uomo ricco e colto che ha perduto entrambe le gambe in un grave incidente: egli trascorre in solitudine la sua triste esistenza da infermo, non alieno da propositi di suicidio. Le sue profonde riflessioni sulla felicità e sul destino svelano a Mersault la strada per la sua liberazione.
In una mattina di primavera, Mersault uccide Zagreus con un colpo di pistola, si impadronisce del suo denaro e tornando a casa, a causa di un colpo di freddo, viene colto da una violenta quanto improvvisa febbre. Nessuno sospetta che sia stato assassinato: Mersault, che finalmente ha i mezzi per costruirsi una nuova vita, nonostante la malattia decide di partire per un viaggio che lo porta ad attraversare in treno l’Europa, fermandosi a Praga, Vienna e infine Genova; da qui prende una nave che lo riporta in Algeria, dove ritrova il sole che tanto gli mancava, continuando la disperata rincorsa verso la sua felicità.

Albert Camus, Parigi, 1944. © Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos
Albert Camus fu uno scrittore appassionato e tormentato, profondamente legato alla sua madrepatria, l’Algeria, che fa da scenario a molti suoi romanzi. Attivista, drammaturgo, critico letterario e filosofo, si avvicinò a Sartre e all’esistenzialismo fin quando non abbracciò un umanesimo meno radicale, lontano dalle chiusure del comunismo; fu premio Nobel per la letteratura nel 1957 e morì a soli quarantasette anni a causa di un misterioso incidente d’auto, secondo alcuni preordinato dal KGB.
La morte felice doveva essere il suo primo romanzo: lo scrisse tra il 1936 e il 1938, mettendo a punto una versione più o meno definita sia nella struttura che nella trama, ma lasciandolo volontariamente inedito. Camus lo abbandonò per dedicarsi alla stesura di quello che fu il suo esordio letterario: Lo straniero, ancora oggi la sua opera più conosciuta ed elogiata. I due libri hanno molti punti in comune, primo fra tutti il cognome del protagonista, Mersault, che racchiude in sé due elementi molto cari allo scrittore ‒ in Mersault si può infatti leggere mer e soleil, mare e sole ‒ ma Lo straniero racconta una vicenda certamente diversa: i due Mersault condividono dunque soltanto il nome e la fatale macchia dell’omicidio.
Il romanzo fu pubblicato postumo, nel 1971, per volere e con il contributo della figlia Catherine: la versione finale che oggi possiamo leggere è frutto di una rielaborazione attenta e fedele, ma non convalidata dall’autore e per questo imperfetta. I personaggi secondari, soprattutto quelli femminili, appaiono abbozzati e come incompiuti: mancano di energia e legame e non riescono a lasciare il segno; la scrittura è asciutta ed essenziale, a tratti forse troppo repentina e laconica. Nonostante ciò, il genio di Camus si percepisce con chiarezza e l’opera è un piccolo capolavoro di umanità.
La suddivisione del romanzo in due parti, intitolate “Morte naturale” e “Morte cosciente”, ognuna delle quali composta da cinque capitoli, rispecchia le due fasi della vicenda di Mersault, prima e dopo l’omicidio, nel passaggio tra il tempo perduto della sua vecchia vita e il nuovo tempo guadagnato grazie all’uccisione di Zagreus. Quest’ultimo, personaggio chiave di tutto il romanzo, ha un’idea precisa di cosa sia la felicità:
Ci vuole del tempo per essere felici. Molto tempo. Anche la felicità è una lunga pazienza. E quasi sempre ci logoriamo la vita a guadagnare denaro, mentre bisognerebbe, col denaro, guadagnarsi il tempo.
Una visione materialista e profondamente onesta, che non lascia spazio a illusioni ed è la scintilla che scuote Mersault dal suo torpore: egli si guadagna il diritto di essere felice uccidendo un altro uomo, “per accordare il suo respiro al ritmo profondo del tempo e della vita”, ma la sua conquista gli costerà cara. Dovrà rassegnarsi a convivere con la sua terribile realtà e accettare il lento cammino verso una morte, gravemente, felice.
Quello che più mi ha colpito di questo romanzo e che mi ha lasciato, soprattutto in alcuni passaggi, un’impressione di estatica meraviglia, sono le descrizioni: con uno stile magistrale e profondamente autentico, Camus riesce a proiettarci nel cuore dei luoghi a lui più cari, facendoci quasi sentire i profumi e i rumori della natura e delle strade di Algeri, attraverso frasi che si avvicinano molto alla poesia:
Dal cielo azzurro scendevano milioni di piccoli bianchi sorrisi.
Alla fine dell’estate i carrubi mettono su tutta l’Algeria un odore d’amore, e di sera o dopo la pioggia, è come se la terra riposasse, dopo essersi data al sole, col ventre tutto bagnato di un seme dal profumo di mandorla amara.
La giornata scoppiò come un frutto maturo e colò su tutta la distesa del mondo come un succo tiepido e soffocante, in un improvviso concerto di cicale.
Un romanzo incantevole, profondo e onesto, come l’autore che l’ha scritto. Una lettura obbligata per chi ama Camus ed è ancora alla ricerca della vera felicità.
Albert Camus, La morte felice, traduzione di Giovanni Bogliolo, Rizzoli, 171 p.