
«Io non intendevo assolutamente diventare scrittore. Le mie aspirazioni erano molto più modeste e direi diverse. Nella mia giovinezza non avevo idee chiare, anzi ne avevo poche ma confuse: avrei voluto diventare, non so, rilegatore di libri, falegname. Mi attiravano le arti in cui avessi potuto usare le mani e la fantasia. […] lo ho notato che avevo una corda in me, una corda nascosta, che era quella di ridere di me e degli altri».
Ennio Flaiano ‒ Intervista alla Radio della Svizzera Italiana, 1972
Così si definì Ennio Flaiano in una delle sue ultime interviste, rilasciata pochi mesi prima di morire. Nato a Pescara, ultimo di sette figli, si trasferì per gli studi a Roma, città dove trascorse la maggior parte della sua vita e alla quale fu indissolubilmente legato.
Nei primi anni della sua carriera si dedicò al giornalismo, collaborando con le più influenti testate dell’epoca, occupandosi soprattutto di recensioni di film e libri. A partire dagli anni Quaranta diventò autore di soggetti per il cinema e per il teatro: collaborò con i più grandi registi dell’epoca e partecipò alla sceneggiatura di moltissimi capolavori del cinema italiano, quali Guardie e ladri di Monicelli e Steno e La notte di Michelangelo Antonioni. Lavorò con Mario Soldati, Dino Risi e Roberto Rossellini, ma fu con Federico Fellini che raggiunse il punto più alto del suo genio creativo: in coppia con Tullio Pinelli, altro mirabile scrittore e sceneggiatore, fu attivo nelle principali produzioni del regista riminese, tra cui I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8 ½ e molti altri.
Flaiano si cimentò altresì con la letteratura, imponendosi come maestro della satira e fine scrittore di aforismi e aneddoti divertenti, diventati il suo segno distintivo. Pubblicò il suo primo romanzo, Tempo di uccidere, nel 1947, vincendo la prima edizione del Premio Strega, che fu istituito proprio in quell’anno. Pubblicò successivamente pochissime opere, tra cui Diario notturno, Una e una notte e una riedizione di Un marziano a Roma, uno dei suoi lavori teatrali, che venne definito dalla critica come «il più interessante insuccesso degli anni Sessanta».
La sua scarsa produzione letteraria ‒ in senso stretto ‒ e il suo preponderante ruolo di sceneggiatore cinematografico indusse i critici dell’epoca a snobbarlo, considerandolo un letterato “irregolare”. Uno stigma del tutto immeritato, che cadrà grazie alla riscoperta postuma di altri suoi lavori tenuti nascosti: innumerevoli appunti, foglietti, memorie, annotazioni di possibili racconti che vennero riuniti insieme in volumi e pubblicati dopo la sua morte, conferendogli il giusto merito. Cesare Garboli, nella postfazione all’Autobiografia del blu di Prussia, dirà che «La morte non ci ha tolto Flaiano. La morte ce lo restituisce».

Ennio Flaiano, Roma, 1960. © Archivi Farabola
Il romanzo che ho scelto per introdurvi allo strabiliante mondo di Flaiano è Il gioco e il massacro, una delle sue ultime opere, pubblicata nel 1970, mentre l’autore era ancora in vita. Si tratta in realtà di una composizione di due diversi racconti, di cui il primo, Oh Bombay!, fu scritto su commissione: è la storia della conversione di un uomo, Lorenzo Adamante, arredatore ed ex produttore cinematografico con fama di omosessuale, che di ritorno da un viaggio in Cina, “preso da un’ansia di normalità”, inizia una relazione con una donna sensuale e libertina di nome Anna Bac.
Il secondo, Melampus, è ambientato a New York e racconta della relazione tra Liza Baldwin, una giovane, bella e sofisticata ereditiera americana, e Giorgio Fabro, scrittore italiano indolente e lunatico in piena crisi creativa; quando il loro cane, Melampus, muore ucciso da un autocarro, la donna, in un folle impulso di sottomissione, si trasforma essa stessa in una cagna, imitando gli atteggiamenti dell’animale e liberando un’energia primitiva che causerà al compagno non poche complicazioni.
Da questo secondo racconto fu tratto un film, La cagna, diretto da Marco Ferreri e uscito nelle sale nel 1972, con Catherine Deneuve e Marcello Mastroianni nel ruolo dei due protagonisti. Inizialmente doveva essere lo stesso Flaiano a dirigere le riprese, ma le incomprensioni con i produttori e un improvviso attacco cardiaco lo costrinsero a rinunciare al progetto. Ferreri fu scelto in sua sostituzione, la sceneggiatura fu completamente stravolta e Flaiano ‒ pur continuando a comparire tra gli sceneggiatori del film ‒ decise di negare il suo contributo, pubblicando il racconto con il testo originale per rivendicarne il messaggio autentico.
Il filo che lega le due storie è spiegato dallo stesso autore nell’introduzione al libro:
I manoscritti che seguono sono stati trovati in due bottiglie. Si riflettono l’uno nell’altro e si completano, ed è questo il fine che li unisce. Il primo, Oh Bombay!, racconta la trasformazione di un uomo; il secondo, Melampus, la trasformazione di una donna. Come quei suppliziati di una volta, chiusi in casse dalle quali sporgevano soltanto con la testa, essi si riconoscono e, per ingannare il tempo della pena, raccontano le loro storie, sempre meno improbabili in una società dove la metamorfosi è una vita di ricambio, tra il gioco e il massacro.
I personaggi delle due vicende vivono, dunque, un’analoga situazione, per cui ad un certo punto della loro vita si trovano a dover affrontare un cambiamento che li stravolge, lasciandoli smarriti e senza forze. La tentazione di cedere alla malinconia e allo sconforto è grande, ma l’istinto vitale, in loro profondamente radicato, trova sempre la via per emergere.
La prosa di Flaiano è di un’eloquenza abbagliante, razionale e perentoria; il linguaggio è sempre diretto e privo di fronzoli; i dialoghi sono scanditi da pause ad effetto, come nelle scene di un film, alternati da descrizioni accurate e aforismi dissacranti. Il messaggio che questo suo modo di scrivere lascia intendere è chiaro: l’ironia e un sano cinismo sono i soli strumenti a disposizione dell’uomo per trovare un po’ di conforto alle tante amarezze della vita.
Nelle ultime pagine di Oh Bombay!, Flaiano ci regala una piccola perla, un elenco allucinato di aforismi e battute che il povero Adamante ascolta inebetito, trasmessi in diffusione da un mini-televisore giapponese regalatogli da una prostituta vietnamita. Ve ne riporto solo alcuni, lasciandovi il piacere di scoprire gli altri nel corso della lettura; sentite qua:
Viviamo per aspettare l’estate, come i bagnini.
Gli italiani sono manieristi anche in amore.
Un sano erotismo? Ma è come dire una bella dentiera.
Oggi anche il cretino è specializzato.
La stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia.
Vivere è diventato un esercizio burocratico.
Più diminuiscono i padroni e più aumentano i cani.
Lei è comunista io sono aristocratico, dunque tutti e due odiamo il popolo, la differenza è che lei riesce a farlo lavorare.
L’avarizia è la forma più sensuale di castità.
Se temete la solitudine, non sposatevi.
Il traffico ha reso impossibile l’adulterio.
Signora, nell’amore di gruppo c’è almeno il vantaggio che uno può dormire.
Questo, dunque, è Ennio Flaiano: un autore brillante e visionario con un irresistibile senso dell’ironia, sottostimato quand’era in vita e riscoperto nell’epoca che egli stesso ‒ forse? ‒ descriveva, il futuro. Da leggere e rileggere all’infinito.
Ennio Flaiano, Il gioco e il massacro, Adelphi, 316 p.