
Non sono i grandi tradimenti a provocare la malinconia, ma il ripetersi di perdite infime.
Gli amanti del cinema forse la conosceranno per aver scritto Il dio del massacro, l’opera teatrale da cui Roman Polański trasse la sceneggiatura per il suo film Carnage del 2011, con Jodie Foster e Kate Winslet nel ruolo delle nevrotiche protagoniste femminili e Christoph Waltz e John C. Reilly in quello dei loro deliranti mariti. I lettori più assidui sicuramente avranno scovato in libreria il suo romanzo Felici i felici, pubblicato qualche anno fa in Italia da Adelphi e diventato in poco tempo un successo editoriale.
Lei è Yasmina Reza, scrittrice e drammaturga francese di origini iraniane e ungheresi, che dall’esordio negli anni Ottanta è divenuta celebre per i suoi eleganti psicodrammi borghesi, inscenati in ambientazioni moderne e fatalmente claustrofobiche. Babilonia è, tra le sue opere, la più recente, a metà tra un romanzo di introspezione e un noir perfettamente tragicomico, in apparenza leggero ma con un pesante sottofondo di cupa malinconia. Un libro che, in un modo o nell’altro, induce alla riflessione, nella sfibrante ricerca di un senso di umanità troppe volte sacrificato.
Élisabeth Jauze, protagonista e voce narrante, è una donna di sessant’anni, come ce ne sono molte. Vive con il marito a Deuil-l’Alouette, un sobborgo di Parigi, in un appartamento confortevole situato al quarto piano di un palazzo qualunque, in una periferia qualunque. È impiegata in un ufficio brevetti, ha una sorella, un figlio, qualche amico. Rimpiange gli anni della sua giovinezza, vorrebbe tornare alla spensieratezza di una volta e vive la sua età con triste rassegnazione.
Jean-Lino Manoscrivi è, anche lui, un uomo di sessant’anni, abbastanza ordinario e poco loquace. Abita nello stesso palazzo di Élisabeth, al quinto piano, con la moglie Lydie, una cantante, pranoterapeuta e attivista per i diritti degli animali sgangherata e un po’ zingaresca. Ha origini italiane, ma parla la lingua madre solo con il suo gatto Eduardo ‒ un omaggio a De Filippo? ‒ che adora. Porta occhiali dalla montatura spessa, un riporto che invano tenta di nascondere la calvizie e abiti che non sono mai stati alla moda.
Élizabeth e Jean-Lino sono amici, se così si può definire il loro rapporto: si sono conosciuti un giorno, incrociandosi nelle scale di servizio del condominio, e da allora sono entrati in confidenza, pur continuando a darsi del lei; hanno condiviso un piacevole pomeriggio all’ippodromo e lunghe chiacchierate che hanno reso più sopportabile la loro solitudine. Per questo Élizabeth, che sta organizzando una festa in casa con alcuni amici, ha deciso di invitare anche Jean-Lino e sua moglie. I preparativi sono quasi al termine, i bicchieri e le sedie sono pronti, gli ospiti iniziano ad arrivare. Nulla può farle pensare che quella gioiosa serata tra amici si sarebbe presto trasformata nella notte più lunga della sua vita.
Non vi svelerò quello che succede dopo. L’autrice lo lascia intendere già dalle prime pagine ‒ rovinando, a mio parere, l’effetto-sorpresa e ottenendo al contrario una debole suspence ‒ e una mente attenta potrebbe facilmente intuire quello che Jean-Lino farà nel corso della serata, ma non illudetevi: non c’è nessun mistero. Tutto accade nella prima parte del libro, a circa un terzo della sua lunghezza; quello che segue è, come già detto, un insieme di eventi a metà tra la tragedia e la farsa, una comica rappresentazione di quanto noi esseri umani possiamo sentirci piccoli e inermi di fronte alle grandi fatalità della vita.
Non si può pensare il mondo in generale, nemmeno gli esseri umani. Ci si può fare un’idea solo di quello che si è toccato. Tutti i grandi eventi alimentano il pensiero e lo spirito, come il teatro. Ma a farci vivere non sono né i grandi eventi né le grandi idee, sono cose più ordinarie.
Tanti sono i temi che la Reza affronta in questo romanzo, il cui titolo rievoca la biblica città di Babele, metafora del male, luogo degli esuli oppositori al Dio di Israele: “Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci sedemmo e piangemmo al ricordo di Sion”. Nel racconto della Genesi, Dio punì la superbia degli uomini per aver tentato di costruire la celebre Torre con lo scopo di arrivare a Lui, condannandoli alla confusione delle lingue. Un’immagine che l’autrice riconduce al mondo odierno, regno dell’incomunicabilità e dell’individualismo, dove tutti vivono insieme ma ognuno è profondamente solo.
Ecco allora che emerge il valore dell’amicizia, sottoposto a critica ‒ dagli altri, sempre dagli altri ‒ quando volto a giustificare azioni terribili; nemmeno il senso di pietà e commiserazione riescono a prevalere, in un mondo cinico e colmo di ipocrisie, in cui più si è vicini e meno si riesce a provare empatia. Numerosi poi sono i flashback, nei quali Élizabeth rievoca il ricordo della madre e dell’ex fidanzato, entrambi morti e ormai irraggiungibili, interrogandosi su alcuni concetti “vuoti” come il dovere della memoria e l’elaborazione del lutto.
Che importa quello che siamo, quello che pensiamo, quello che diventeremo? Siamo da qualche parte nel paesaggio fino al giorno in cui non ci siamo più.
La parte a mio avviso più brillante riguarda il momento della festa, in cui l’autrice riesce a mettere a nudo, con una tecnica oltremodo sopraffina, tutte quelle piccole convenzioni sociali a cui orrendamente ci ha abituato la vita in comunità: le conversazioni scialbe e monotone, l’imbarazzo del silenzio e la necessità di riempirlo con qualsivoglia argomento, siano discussioni sui massimi sistemi o “cazzate da sabato sera”; i pettegolezzi, la retorica da salotto, le scenette coniugali che consistono “nel mettersi in scena e stuzzicare l’altro per divertire la platea”. Un piccolo universo infernale in cui è fin troppo facile identificarsi.
In questa analisi profonda e dissacrante, la Reza non dà giudizi morali, mantenendo sempre un distacco assoluto. Mai una volta nel libro dimostra affetto o comprensione per i suoi personaggi, limitandosi a descrivere in modo asettico i fatti e le sensazioni da loro vissute: entra ed esce dai loro pensieri e li guarda vivere, lasciando al lettore il compito di stabilire se quello che fanno sia giusto o sbagliato.
Più di una volta, nel corso della lettura, mi è capitato di domandarmi cos’avrei fatto io, se mi fossi trovato al posto di Élizabeth, o di suo marito ‒ anch’egli personaggio cruciale ‒ o di Jean-Lino. Non sono riuscito a rispondermi.
Forse è proprio questo il vero enigma che l’autrice vuole sottoporci. Lascio a voi quest’onere, provate a risolverlo e, se doveste riuscirci, vi prego: non fatemelo sapere.
Yasmina Reza, Babilonia, traduzione di Maurizia Balmelli, Adelphi, 157 p.